24/07/17

[We talk about...famous artists!]
Robert Wyatt!
"Oggi parliamo di Robert Wyatt! Chi è costui - direte voi punx abituati a viaggiare sulle frequenze della rovina hc più spinta - ? Non un punk ubriaco, mi dispiace, anche se ci da dentro anche lui, ma di uno dei più importanti e influenti musicisti del secolo scorso e di questo scorcio di fottutissimo terzo millennio. Cosa ci fa un pluri-acclamato musicista, ampiamente sdoganato dalla critica mondiale, sul blog dei Kalashnikov collective? Adesso vi spiego...
Robert nasce nel 1945 a Bristol, in Inghilterra: l'anno giusto per essere giovane e radioso nei favolosi anni Sessanta e ciucciarsi il meglio della beat generation e della psichedelia. Il Nostro, naturalmente si strippa subito con la musica: impara a suonare il pianoforte e si appassiona al jazz. Dirà tempo dopo: “Non posso definirmi un vero musicista jazz: sono piuttosto un turista del jazz, che vaga in questo meraviglioso mondo con la bocca spalancata. Questo perché purtroppo non sono un americano nero nato ad Harlem ma un inglese”.


Giovinezza hippy, suicidi tentati e l'iscrizione al partito comunista inglese...
Inizia a viaggiare e a conoscere gente, amici, musicisti: passa dieci mesi – definiti uno dei periodi più belli della sua vita – sull'isola di Maiorca assieme ad una comunità di poeti, artisti e scoppiati. Giornate piene di cazzeggio in cui si suona la batteria, si fanno sculture, si scrivono versi surrealisti. Non che fosse una persona tranquilla, il buon Robert: qualche mese prima aveva tentato il suicidio ingerendo un mix di barbiturici, nella camera dell'amico Daevid Allen, a Canterbury. Di indole malinconica ma, a modo suo, dotato di forte personalità, Robert capisce che le convenzioni sociali sono un limite per la propria crescita e che bisogna imparare a sbattersene, iniziando un percorso esistenziale di liberazione. Come vedete, non si tratta della classica vicenda della rockstar a caccia di successo!
Schiacciamo il tasto fast-forward e andiamo avanti nella storia: nei primi anni Settanta Robert ha già fatto un sacco di cose interessanti. Ha scritto tre dischi con i Soft Machine – gruppo seminale della scena prog di Canterbury – dove suona la batteria e canta, facendo concerti assieme a gente del calibro di Pink Floyd e Jimi Hendrix Experience. Ha composto il suo primo disco solista, lo stripposissimo “The End of an Ear” (1970), capolavoro di improvvisazioni free e sperimentalismo strumentale, dal titolo memorabile e pretenzioso, dove Robert canta utilizzando vocalizzi senza il ricorso alle parole. Se n'è poi andato dai Soft Machine e ha fondato i Matching Mole (gli “incontro tra talpe”: il suono delle due parole è un fine sfottò del suo precedente gruppo, se pronunciato alla francese, “Machine Molle”), con i quali inizia ad esplicitare in maniera netta il suo impegno politico. Sì, perché il Nostro è un compagno, di quelli determinati e duri, anche se i suoi testi non sono mai troppo espliciti: alle dichiarazioni solenni preferisce il surrealismo e il non-sense (“Possiamo berci via la nostra politica, a partire dal mezzogiorno, possiamo berci via lontano la nostra politica”). La copertina del secondo disco dei Matching Mole “Little Red Record”, però, è chiara come più non si potrebbe: loro quattro in posa da guerriglieri comunisti, con tanto di mitragliatore, bandiera e libretto rosso, il tutto in uno stile da dipinto di propaganda maoista.
Il volo
Il giovane Robert non dev'essere un tipo facile, tutt'altro: beve, fuma marjuana, è uno tosto. Il primo di giugno del 1973 è a Londra, alla festa di compleanno di alcune amiche (Gilli Smyth dei Gong e la musicista e pittrice Lady June). Al calar della notte, è completamente fatto. Ubriaco fradicio, ciondola e cade dalla finestra. Fa un volo di tre piani e si schianta al suolo. Risultato: rimane paralizzato dalla vita in giù. Non certo il massimo per uno dei migliori batteristi in circolazione. Carriera finita? Niente affatto. A proposito dell'incidente, il medico che gli presterà soccorso, racconta che rimase stupefatto: “Doveva essere proprio ubriaco per rimanere così rilassato mentre cadeva dal terzo piano”. “La cosa – ricorda ironico lo stesso Wyatt – andò così: nell'ordine, vino, whysky, southern comfort e poi la finestra. Se fossi stato appena un po' più sobrio probabilmente oggi non sarei qui: avrei teso tutto il corpo per la paura e quindi mi sarei fracassato”. L'alcool, quindi, gli causa questo incredibile incidente, ma, nello stesso istante, gli salva anche la vita. Curiosità astrale: tre anni prima Robert era diventato molto famoso per la canzone “Moon in June”, nell'album “Third” dei Soft Machine, una lunga suite composta interamente da lui nella quale sperimentava delicate atmosfere free. Quella stessa luna di giugno, invocata nella canzone, assistette impassibile al suo lungo volo dalla finestra.

Rock basso
Inizia un periodo di lunghe cure in ospedale. Gli amici Pink Floyd, diventati dopo “The Dark Side of the Moon” tra le band più famose del pianeta, organizzano un doppio concerto a Londra per aiutarlo con le ingenti spese mediche. Lo sconforto si fa strada, ma Robert ha una creatività e un'ironia dirompenti e, in qualche modo, capisce che questo incidente non rappresenta una fine, ma un nuovo inizio. Ma cosa può fare un batterista che rimane mezzo paralizzato? Niente più tradizionale drumset, via la grancassa e il charleston. D'ora in poi ci si mette sotto con le tastiere, le percussioni, la tromba e, ovviamente, la voce. E' da questa storia che nasce uno dei dischi più belli e struggenti di sempre, “Rock Bottom”. “Rock Bottom” è un'espressione inglese che significa più o meno “toccare il fondo” ma per Wyatt è anche un gioco di parole, letteralmente “rock basso”, “sottotono”. Un rovesciamento della consueta iconografia della rockstar tutta eccessi e impatto mediatico. Il disco è intriso di atmosfere intimiste e malinconiche, espressione di un animo inevitabilmente afflitto ma anche pervaso da un lirismo e da una poesia surreali senza precedenti. In apertura c'è “Seasong”, una splendida canzone d'amore: Wyatt, rivolgendosi ad una “lei” sembra essere un pesce rosso che osserva il mondo chiuso nella sua palla di vetro, sciorina espressioni tratte dal mondo marino e sembra interrogarsi su questa strana creatura, amabile ma in qualche modo ferina, parte di un mondo “altro” e sconosciuto (“Sei un animale stagionale come la stella marina che si lascia trascinare dalla marea”). Ma chiude con un “we're not alone” dal quale trapelano speranza e futuro. E chi è dunque questa creatura bellissima e misteriosa?

Alfie
Alfreda Benge, detta Alfie, è una poetessa e illustratrice austriaca, di cinque anni più grande di Robert. Di madre polacca, si trasferisce in Inghilterra a soli sette anni. I due si conoscono e s'innamorano. E la loro relazione sentimentale si intreccia con la loro carriera artistica: Alfie è una delicatissima poetessa, ama i giochi di parole esattamente come Robert, dipinge quadri dai colori accesi e dai soggetti surreali. Quando lei viene chiamata nel 1972 a lavorare a Venezia come assistente a un film horror, lui la segue, ma una volta arrivato nella camera d'albergo non sa che cazzo fare ed inizia ad annoiarsi a morte. Alfie allora, durante una pausa sul set e con i pochi soldi che ha in tasca, va in un negozio di strumenti musicali trovato per caso e gli regala una tastierina giocattolo, con la quale finalmente Robert può stripparsi: nascono così le prime bozze di “Rock Bottom”, che uscirà due anni dopo. Dopo l'incidente di Londra, Alfie si prenderà cura di Robert e i due rimarranno assieme per tutta la vita, sino ad oggi, continuando ad aiutarsi nelle reciproche carriere artistiche e nell'impegno politico.

Repressione dura, ma niente ci potrà fermare!
Già, la politica! Nel 1979 viene eletta Margaret Thatcher ed un comunista marxista convinto come Robert non può che preoccuparsi: niente più stato sociale, niente più diritti dei lavoratori, la “signora di ferro” se ne sbatte e pesta duro sulla base. Allora Robert e Alfie capiscono che bisogna darsi da fare con quello che sanno fare meglio. Lui, inchiodato sulla sua sedia a rotelle, crea colonne sonore per film animalisti, scrive canzoni di protesta (la sentita “Amber and the Aberlines” dove si canta “nessuno vince se si combatte da soli”) e partecipa a concerti a supporto degli scioperi contro le politiche della Thatcher. Lei, invece, è attiva in favore dei diritti delle minoranze, partecipa a iniziative e manifestazioni, scrive volantini e gli yuppies del quartiere dove vive cominciano a non vederla di buon occhio. Giusto per rendere un'idea del clima, durante un presidio contro l'apartheid, Alfie si sentirà dire da un vicino: “abbiamo pagato così tanti soldi per venire in questo bel quartiere, non vogliamo vedere queste cose!”. E' del 1982 il disco “Nothing can stop us”, una compilation di canzoni di protesta interamente rivisitate da Wyatt: la copertina, molto simpatica, raffigura il cofano di una vecchia Rolls Royce dove al posto del marchio compare l'immagine di un operaio con tanto di tuta e chiave inglese alzata verso il cielo. Rispetto a tante operazioni speculative alle quali il lurido music businness ci ha ormai abituati, questa rimane una delle più sincere e sentite di sempre, con la voce di Robert a testimoniare la schietta partecipazione alle lotte in quegli anni di dura repressione.

Il "Wyattofono" e fade out
Come avete sin qui visto, Robert Wyatt non è certo il tipico musicista plasmato dallo starsystem, né un intellettuale accademico un po' snob figlio della cultura radical-chic, ma anzi è un buon compagno che ha cercato di portare qualcosa di buono in questo cesso di mondo. Ecco perché ne abbiamo parlato! Inoltre, lungi dall'essere ricchi e viziati, lui ed Alfie hanno spesso avuto problemi di soldi e si sono dovuti trasferire più di una volta per far fronte alle spese di affitto, nonostante Robert fosse diventato quasi subito un musicista affermato. Tra le tante collaborazioni realizzate nell'arco degli anni merita una menzione quella con Björk, la pluri-premiata genietta islandese che iniziò il suo percorso con il punk, o con qualcosa di simile (ma questa è un'altra storia, e ve la racconteremo più avanti...). Da questo incontro è nato il Wyattron, ovvero il “Wyattofono”: “questa ragazza è venuta a trovarmi – racconta Robert – ed è stata pazientemente a registrare la mia voce. Ha preso ogni nota che io avessi: tutte, dalla più grave alla più acuta”. Björk ha realizzato così una sorta di tastiera contenente i campioni di voce di Wyatt, con la quale ha realizzato anche degli arrangiamenti contenuti nella famosa “Submarine” dall'album “Medulla” del 2004".

15/07/17

[We talk about...free books for punx!]
"Mosca - Petuski" alias "Mosca sulla vodka"
"Oggi parliamo di capolavori. Un giorno Denis, il capitano-driver che ci ha scarrozzato in lungo e in largo nei nostri tour russi (e non solo), ci dice: "ehi, c'è questo libro, dateci un'occhiata, credo ne esista un'edizione italiana. E' il mio preferito di sempre!". Scopriamo che si tratta di un samizdat, ovvero di un libro clandestino circolato segretamente durante i decadenti anni dell'Unione Sovietica di Breznev, quando tutto andava a scatafascio e se ti permettevi di obiettare qualcosa finivi a lavorare in un gulag a 50 gradi sottozero. Un samizdat, dunque? Uh, la cosa iniziava a farsi interessante! Nonostante la sua natura underground, il libro – intitolato “Mosca-Petuski” – ebbe un grande successo durante gli anni Settanta, tanto da richiamare l'attenzione di qualche editore straniero che si prese la briga di tradurlo e di pubblicarlo: il primo fu, curiosamente, in Israele nel 1973, al quale seguì la Francia e l'Italia che nel 1977 ne cambiò il titolo nel più triviale “Mosca sulla vodka”. Il motivo per cui il racconto di cui stiamo parlando non è mai stato stampato dall'editoria sovietica ufficiale è, ovviamente, comprensibile: diciamo che non si tratta esattamente di un'apologia dell'URSS. Ma – ordunque – di che cosa parla questo libro?

Una sbronza perenne
Venedikt Erofeev (1938-1990) – questo è il nome dell'autore del libro in questione – fu uno scrittore e anche (e soprattutto) un accanito bevitore. Il racconto ha come protagonista lui stesso ed è strutturato come una sorta di flusso di coscienza in prima persona, che descrive il nostro Venja (nomignolo di Venedikt) attraversare Mosca fino alla stazione di Kursk per salire sul treno che lo porterà alla cittadina di Petuski, distante circa 150 kilometri, per incontrare la sua amata. Naturalmente però, nulla va come previsto. O meglio: Venja, oltre ad essere una persona colta e raffinata – come ben traspare dai numerosi soliloqui che compaiono nel racconto – è anche un alcolizzato senza ritorno. Non un bevitore qualunque, signori miei: un fiero e orgoglioso bevitore che fa del bere uno stile di vita, una poetica sovversiva, un modo rivoluzionario di concepire l'ebbrezza che comporta un assoluto cambio di prospettiva sull'esistente. E difatti la narrazione diventa presto il racconto onirico di una sbronza colossale. Ce la farà il nostro eroe a raggiungere Petuski e ricongiungersi con la sua amata?

Il tratto Mosca - Petuski
Satira sociale in salsa alcolica
Il viaggio in treno è dunque solo un pretesto per parlare della vita e della società sovietica. In verità “Mosca – Petuski” è un racconto ironico, ricco di iperboli e paradossi, che trasforma un reietto senza speranza in un eroe tragico. Nell'apparente semplicità di un viaggio che avrebbe dovuto durare un paio d'ore, la dimensione onirica travolge la realtà, i piani di ciò che è serio e ciò che è burla si capovolgono, fino alle drammatiche pagine conclusive, dove si consuma un colpo di scena tragico e beffardo. Il protagonista del racconto è un vittima di una realtà crudele e spietata, dove non c'è posto per chi sa di essere un outsider. Gli aneddoti che si potrebbero riportare – colmi di citazioni dei “mostri sacri” della cultura russa – sono molti e spassosi. Ve ne raccontiamo giusto un paio...

Venedikt Erofeev al lavoro
Il lavoro rende liberi: i “grafici individuali
Ad un certo punto si parla di lavoro e scopriamo che Venja era un ispettore dei cavi telefonici presso l'aeroporto di Mosca. Le giornate lavorative nell'URSS degli anni Sessanta vengono descritte così: “[...] Il nostro processo produttivo – scrive Erofeev – si presentava nel seguente modo: al mattino, appena arrivati, ci mettevamo seduti a giocare a sika [un gioco di dadi], a soldi (voi sapete giocare a sika?). Bene. Poi ci alzavamo, srotolavamo il tamburo col cavo e mettevamo il cavo sotto terra. E poi, si sa: ci sedevamo e ciascuno ammazzava il tempo a modo suo, giacché in fondo ognuno ha il suo carattere e il suo sogno: uno beveva vermut; un altro, più alla buona, beveva acqua di colonia "Frescura", mentre chi aveva pretese, beveva cognac all'aeroporto internazionale di Seremet'evo. E poi si andava a letto. E il mattino dopo, cosi: prima ci sedevamo e bevevamo vermut. Poi ci alzavamo e tiravamo fuori dalla terra il cavo del giorno prima, perché naturalmente era tutto umido. E poi - che dire? - poi ci sedevamo a giocare a sika a soldi. E si andava a letto senza riuscire a terminare la partita. Il mattino presto già ci svegliavamo a vicenda: "Lecha! Alzati, che si deve giocare a sika!", "Stasik, alzati per finire la partita di ieri a sika!". Ci alzavamo e finivamo la partita a sika. E poi, senza indugi, senz'aver bevuto né "Frescura", né vermut, davamo di piglio al tamburo col cavo e cominciavamo a srotolarlo affinché l'indomani fosse fradicio e inutilizzabile. E soltanto dopo di questo, ognuno si sentiva libero di fare quel che gli pareva, perché ognuno ha i suoi ideali. E cosi tutto daccapo”. 
Quando Venja diventa “brigadiere”, ovvero responsabile della sua unità di lavoro, introduce una novità, i “grafici individuali”: “dirvi che razza di grafici fossero? – scrive ancora il Nostro – Bene, è molto semplice: con inchiostro di china si tracciano su carta velina due assi: una orizzontale e l'altra verticale. Su quella orizzontale si segnano per ordine tutte le giornate lavorative del mese trascorso e su quella verticale si indica in grammi la quantità di quanto s'è bevuto, ma tradotto in alcool puro. Naturalmente si teneva conto soltanto di quanto si era bevuto sul lavoro e prima di esso, in quanto ciò che si beve la sera costituisce una quantità più o meno costante per tutti e non può presentare interesse per uno studioso serio. E cosi, allo scadere del mese, il lavoratore mi si presentava con il suo rendiconto: il tale giorno ho bevuto questo o quello e in questa o quella quantità, il tal'altro giorno ho bevuto, ecc. E io traducevo tutto questo in un bel diagramma con inchiostro di china su carta velina”. Naturalmente si tratta di “grafici” alternativi a quelli ufficiali. Ma Venja – con un'ironia e un gusto per il paradosso tipicamente russi – capisce che attraverso la conoscenza del “ritmo alcolico” di ciascuno si riesce a conoscere molto più da vicino le esigenze dei lavoratori. Accade però, a causa di una giornata dove si è esagerato col tazzare, di confondersi e spedire ai responsabili del Partito i grafici “alcolici” anziché quelli veri. Risultato: Venja viene licenziato.
Da sinistra a destra, i "grafici individuali" del giovane comunista VIktor Totoskin, della vecchia canaglia sconquassata Aleksej Blindjaev e di Venedikt Erofeev
I controllori! I controllori!
Può un racconto ambientato su un treno fare a meno della figura del controllore? Ovviamente no! Solo che in Mosca sulla Vodka il personaggio del controllore Semënič è naturalmente biecamente corrotto e dedito all'alcolismo (come tutti, in realtà). “A dire il vero, sulla linea di Petuski nessuno ha paura dei controllori, perché tutti sono senza biglietto. Se qualche rinnegato fa il biglietto perché magari è in preda a una sbornia, lui sì che si trova a disagio quando passano i controllori. Quando un controllore gli chiede il biglietto, lui non guarda nessuno: né il controllore stesso, né il pubblico, ma è come se volesse sprofondare sotto terra. E il controllore esamina il suo biglietto in una certa maniera schifata e lo guarda in modo da annientarlo, come se fosse un rettile. E il pubblico, il pubblico guarda il "furbo" con degli occhi grandi e belli, come per dire: "Abbassa lo sguardo, razza di coglione! Ti rodeva la coscienza, eh?". Ma prima dell'arrivo del controllore Semënič la vita per i passeggeri era molto più dura: “Prima che Semënič diventasse capo-controllore, tutto andava diversamente: in quei giorni i passeggeri senza biglietto venivano chiusi come gli indiani nelle riserve, gli picchiavano in testa con i tomi dell'enciclopedia Efron & Brockhaus, e poi li multavano e li scaraventavano fuori della vettura. In quei giorni, fuggendo il controllore, essi correvano attraverso i vagoni come armenti in preda al panico, trascinando con sé anche quelli che avevano il biglietto. Una volta, sotto i miei occhi, due piccoli ragazzini, abbandonandosi al panico generale, corsero insieme al gregge e furono schiacciati a morte. E restarono così, riversi nel corridoio, stringendo nelle manine bluastre i loro biglietti...”. L'aneddoto terribile dell'uccisione di due bambini viene buttato lì così, come se fosse una cosa di frequenza comune, un particolare di poco conto. 
Ma poi, per fortuna, arriva Semënič, e le cose cambiano...in meglio! “Il capo controllore Semënič ha cambiato tutto: ha abolito le multe e le riserve. Ha regolato tutto in modo più semplice, esigendo da ogni viaggiatore senza biglietto un grammo di vodka per chilometro. In tutta la Russia gli autisti chiedono una copeca a chilometro, mentre Semënič chiedeva una volta e mezza di meno: un grammo a chilometro. Se, per esempio, tu vai da Cuchlinka a Usad, una distanza di novanta chilometri, devi versare a Semënič novanta grammi di vodka e poi viaggi assolutamente tranquillo, sbracato sul tuo sedile come un bottegaio...”. Geniale no? Immaginatevi se funzionasse così anche oggi in Italia: la figura del controllore, da bieco sbirro diventerebbe un simpatico compagno di sbronze, pronto a portare allegria ad ogni sua comparsa. “E così l'innovazione di Semënič ha rafforzato il legame tra il controllore e le larghe masse, ha diminuito il costo di questo legame, l'ha semplificato e umanizzato...E ora nel fremito generale suscitato dal grido “i controllori!" non c'è più nessuna paura. In questo fremito c'è soltanto un'anticipazione...”. Ed, infine, ecco che il personaggio entra finalmente in scena: “Semënič entrò nella vettura, sorridendo in modo sensuale. Già si reggeva a malapena sulle gambe, perché di solito restava sul treno soltanto fino a Orechovo-Zuevo, dove scende va e se ne andava nel suo ufficio, sbronzo da vomitare..."Di nuovo tu, Mitrič? Daccapo a Orechovo? A fare un giro sulla giostra? Cent'ottanta fra tutt'e due. Ah, sei tu, Nero baffuto? Saltykovskaja-Orechova Zuevo? Settanta due grammi. Svegliatemi questa puttana e domandate quanto deve. E tu, covert-coat, di dove vieni e dove vai? Serp-i-Molot-Pokrov? Centocinque, per favore. I 'portoghesi' sono sempre di meno. Una volta ciò suscitava 'ira e sdegno' mentre oggi suscita 'legittimo orgoglio'... E tu, Venja? ..." e Semënič m'investì in maniera sanguinaria col suo alito fetente d'alcool: "e tu, Venja? Come sempre Mosca-Petuski? ..."

Effetti del "Balsamo di Canaan"
Cocktails creativi
Il Nostro, da buon bevitore, è naturalmente un esperto di cocktails. Ma dimenticatevi i vari spriz, negroni, mojito, caipirinha...tutta roba da fighetti occidentali! Qui si parla invece di roba seria, orgogliosamente proletaria. Sentite qua: “In breve, scrivetevi la ricetta del "Balsamo di Canaan". La vita è concessa all'uomo una volta sola e bisogna viverla in modo da non sbagliare le ricette: 

Alcool denaturato 100 g
Birra vellutata 200 g
Vernice purificata 100 g

Ed ecco che avete davanti a voi il "Balsamo di Canaan" (detto familiarmente "volpe bruna"), un liquido che ha effettivamente un colore nero-brunastro, moderatamente forte e con un aroma robusto. Non si tratta nemmeno d'un aroma, ma di un inno. L'inno della gioventù democratica. Proprio così, giacché in chi beve questo cocktail maturano appieno le “forze oscure” e la volgarità”. In Unione Sovietica, come ancora oggi in posti dove l'alcolismo è la norma, siccome non è facile reperire superalcolici che non siano la vodka, si usava davvero fare dei cocktails con profumi e prodotti per l'igiene. Mosca sulla Vodka è un racconto dai toni iperbolici, ma c'è sempre del vero in ciò che scrive Venedikt Erofeev. Che subito dopo ci illustra gli effetti sull'umore e sulla nostra psiche di alcune sostanze di uso comune: “il "Mughetto," per esempio, eccita l'intelligenza, allarma la coscienza, rafforza la coscienza del diritto. Il "Lillà bianco" al contrario, tranquillizza la coscienza e concilia l'uomo con le piaghe dell'esistenza … A me è successo così: bevo un intero flacone di “Mughetto argentato”, me ne sto lì e piango. Perché piangevo? Perché mi ricordavo di mia mamma, cioè me ne ricordavo e non potevo dimenticarla. “Mamma” dicevo. E poi di nuovo: “Mamma” e di nuovo piangevo. Un altro, più stupido, sarebbe rimasto li a piangere. E io invece? Io ho preso un flacone di “Lillà” e me lo sono bevuto. E che cosa credete? Le lacrime si sono asciugate, un riso idiota mi ha assalito e anche la mamma l'ho dimenticata a tal punto che non sapevo più come si chiamava”. 
Alcuni prodotti del perfetto barman
Ed infine, vi lasciamo con la chicca finale: “ma lasciamo stare la “Lacrima”. Adesso vi propongo il dulcis in fundo. “Il serto delle fatiche è superiore a ogni compenso” disse il poeta. In breve, io vi propongo il cocktail “Trippa di cane” una bevanda che oscura tutto il resto. Non si tratta neanche più d'una bevanda, ma d 'una musica delle sfere celesti. Che cosa c'è di più bello al mondo? La lotta per la liberazione dell'umanità. E di più bello ancora? Ecco, scrivete:

Shampoo "Sadko ospite di lusso” 30 g
Birra di Zigulì 100 g
Soluzione antiforfora 70 g
Deodorante per piedi 30 g
Antiparassitario 20g

Tutto ciò si lascia macerare per una settimana con tabacco di sigari; quindi si serva in tavola...A proposito, mi sono giunte lettere in cui oziosi lettori mi consigliano inoltre di filtrare l'infuso cosi ottenuto con un passino. Ossia, di filtrarlo con un passino e poi di andare a letto... Ma lo sa il diavolo che roba è questa e tutte queste aggiunte e correttivi provengono da fiacchezza d'immaginazione, da insufficienze del volo del pensiero; ecco di dove vengono questi assurdi correttivi ... E dunque, la “Trippa di cane” è in tavola. Bevetela non appena appare la prima stella, a grandi sorsi. Già dopo due bicchieri di questo cocktail un uomo diventa così spiritualizzato, che ci si può far da presso e per un'intera mezz'ora sputargli sul grugno da una distanza d'un metro e mezzo senza che lui ti dica niente”.

13/07/17

[We talk about...books for punx!]
"Punk, anarchia, rumore" di Carmine Mangone
"Oggi parliamo di un libro che ci è stato donato dall'amico Carmine Mangone: chi è questo losco figuro? Massì che lo conoscete, dai...Circa un anno fa – ehm, sì, siamo in ritardo con questo post – ci arriva a casa questo libretto con tanto di dedica: perché con Carmine è capitato di fare delle cose assieme, tra le quali una simpatica jam session poetica (che abbiamo messo in scena qualche anno fa presso il Telos di via Milano a Saronno) e un'originale intervista che trovate pubblicata sul suo blog. Quando, dopo un concerto che gli organizzammo a Casa Gorizia Occupata a Milano assieme a Roberto Belli (altro personaggio di cui forse ci capiterà di raccontare), il Mangone ci parlò di questo suo libro sul punk su cui stava lavorando, noi pensammo: "Bello, però uscirà chissà quando". E invece – efficienza dell'anarchia! – eccolo qua: quelli in ritardo siamo noi!

Ma gli scrittori sognano gruppi punk elettrici?
Si tratta dunque di un libro sul punk ma che è stato scritto da una persona che non rispecchia lo stereotipo del punk in senso ortodosso. Carmine (anche se a lui non piacciono le definizioni) è piuttosto un poeta, performer e scrittore: si definisce ironicamente, con un'espressione dal sapore vagamente freak, un "poeta punk rurale". E questo ha i suoi lati positivi, perché siamo molto lontani dai soliti testi, usciti a valanghe negli ultimi tempi, che ripercorrono e mitizzano tutto ciò che accadde dal 1977 al 1985 senza avere una tesi di fondo. Questo non è un racconto scritto "dal di dentro", in soggettiva, ma una riflessione, uno scritto teorico. Il punk per Mangone (come per noi) non è una storia giunta al suo epilogo, una parabola che ha avuto un suo sviluppo circoscritto come fosse un capitolo chiuso della Storia. Eh no, gente: il punk è vivo e lotta assieme a noi! Ciò che fuoriesce dalle pagine del libro è una sincera e appassionata descrizione di questa "sottocultura" come anima creativa, una forza iconoclasta che, con improvvise accelerazioni, ribalta regole espressive del presente, scuotendoci dal nostro torpore fisico e intellettuale. Direi che più che una descrizione, in senso filologico, di cosa sono "Punk, anarchia, rumore", il libro sia in realtà un saggio autobiografico. L'autore non sceglie l'approccio del giornalista ma vuole affermare - ricorrendo a fatti, ragionamenti e citazioni - la sua personale poetica: una dichiarazione di estraneità rispetto alla società e di affinità con una comunità di disadattati, filosofi rivoluzionari e soggetti border-line. "(...) Io non sono un critico musicale, bensì un teorico della sovversione. Scrivere sul punk è scrivere contro ogni idea di punk. Io sono punk solo se porto in me una dismisura critica e scanzonata nei confronti  di ogni idea imposta dalla società".

Stiopa e Carmine Mangone in posa blandamente cristiano-internazionalista
Dal "battito primordiale" ai Crass...
E dunque qui si tratta di scagliare un pugnace rutto in faccia ad una visione aristocratica dell'arte come intrattenimento colto per borghesi annoiati, dichiarare una solenne belligeranza nei confronti dei limiti del buongusto e del politically correct e rivolgere una risata beffarda in faccia (accompagnata da gesti espliciti) a chi crede che, riparandosi sotto l'ombrello di qualche regola socialmente accettata, la sua vita sarà migliore. Chiarito ciò che abbiamo di fronte, possiamo leggerci il libro senza paura di cadere in fraintendimenti e gustarci questo racconto dal profilo eclettico, passando in rassegna ragionamenti sul senso del "rumore", citazioni letterarie, brandelli di testi di canzoni, racconti di aneddoti noti e meno noti della storia della musica, riflessioni sull'anarchia e sulla dottrina rivoluzionaria. "D'altronde – come si scrive nell'aletta di copertina – perché mai avere in testa uno schema definitivo (e ideologico) quando il punk ha cercato di negare ogni struttura culturale?". Ah, dimenticavo, nel libro abbiamo un piccolo spazio anche noi! Yu-uuu!!!

10/07/17

[we talk about...free music for punx!]
"Da sempre", Cerimonia Secreta, 2017
"La musica è come un tatuaggio che segna i nostri corpi, un segno indelebile sui tracciati obliqui delle nostre esistenze. Spesso il bisogno di creatività travalica i confini delle possibilità concrete di esercitarlo. E' per questo che ci ritroviamo a cercare occasioni per incanalare l'urgenza creativa nei progetti più disparati, nonostante i Kalashnikov collective rimangano il centro gravitazionale delle nostre attività. I "Cerimonia Secreta" sono una nuova band, un'oscura entità che allieta la scena punk diy di Milano: nascono dall'amicizia che ci lega ad un gruppo di loschi individui che corrisponde al nome di "Occult punk gang" e con i quali ci aiutiamo reciprocamente in sbattimenti vari tra cui l'organizzazioni di concerti e situazioni. Gli officianti di questa blasfema creatura sono Francesco Goat (voce), Anto Facca (batteria), Oppo (chitarra), Lisa (theremin) e Stiopa (basso). Vediamo di dipanare il mistero e conoscere più da vicino questa tenebrosa entità!

Nuove frontiere del punk...
Finalmente – dopo un'epopea durata un anno e poco più – è uscito il loro disco, anzi, la loro cassetta, intitolata "Da sempre". Che cosa suonano i Cerimonia Secreta? Un incrocio sabbatico di post-punk e neu-punk, moderno e fieramente underground, con suoni sporchi, riverberati e pastosi. I testi sono un condensato di sensi di colpa, grumi psicanalitici rimossi e coni d'ombra dell'anima. La loro declamazione dà il via ad una cerimonia catartica priva di redenzione. E la musica? Tutto parte da un groove molto solido, con una sezione ritmica scarna e sincopata, che scandisce le armonie asimmetriche e oblique tessute dalla chitarra. E nel mezzo delle danze compaiono imprevedibili momenti free dove regnano protagonisti gli inserti di theremin e di sax (suonato con la consueta sapienza dal Quaglia, il losco figuro che suonato anche nei dischi dei Kalashnikov). Insomma, c'è qualcosa di nuovo e di nero in queste canzoni, specchio di questi tempi incerti e senza luce: punk, certo, ma sul filo di un'atmosfera sinistra, con una carica anti-melodica non priva di elementi pop, ben celati sotto la coltre di un caotico muro di suono e dei delay digitali. Qui sotto avete tutto ciò che vi serve per ciucciarvi le canzoni e procurarvi l'imperdibile "cassetta secreta". Non proprio un ascolto per i pomeriggi d'estate, ma magari quando calano le tenebre...

05/07/17

[we talk about...radioshow!]
La "Casa del Disastro", stagione 2016-2017: echi di un'esperienza disastrosa
"Con la puntata del 29 giugno 2017, si è chiusa la prima stagione de "La Casa del Disastro", il programma radiofonico sulle frequenze di Radio Onda d'Urto che ci siamo inventati. Una raffica, da ottobre 2016 a giugno 2017, di 33 puntate (come gli anni di Gesù...) della durata di un'ora circa ciascuna che trovate a disposizione delle vostre orecchie proprio qui. E' stata un'esperienza certamente impegnativa (avrete notato che il blog è rimasto senza aggiornamenti per parecchio) ma decisamente appagante. Incredibile il riscontro che c'è stato e le centinaia e centinaia di ascolti masticati dai podcast messi in rete! Dobbiamo naturalmente ringraziare Andre della redazione di Milano della radio che ci ha incoraggiati ad iniziare, pur nella vaghezza di mezzi tecnici e nella paura di rimanere risucchiati in qualcosa di più grande di noi. Ma, ad un certo punto, ci siamo detti: se dev'essere disastro, che disastro sia! E, ora che la prima stagione si è conclusa con tanto di rutilante concerto finale in Villa Vegan (conclusosi tra danze belluine alle 5 del mattino), possiamo tirare le somme di quest'esperienza...


Ehi, tu! Come hai scoperto il punk?
Innanzitutto, col pretesto dell'intervista ai gruppi, abbiamo potuto scavare a fondo nella melma della scena diy punk della nostra città. Abbiamo consolidato vecchie amicizie e scoperte di nuove, approfondito idee con gruppi, collettivi, fonici, gente che viene ai concerti nonché montato delle puntate monografiche dedicate al punk giapponese, siberiano, francese, scozzese, inglese, dello Stato dell'Ohio negli Usa e della Germania Est, oltre a qualche mixtape qua e là (punk jugoslavo e neu!punk). L'idea di base era effettuare una fotografia in movimento della scena punk diy e dintorni a Milano, come di quella in altri tempi e in altri luoghi: uno scatto sgranato e fuori fuoco, magari parziale, ma certamente schietto e sincero. Perché il tempo fluisce veloce come un pezzo grind e talvolta rimangono solo ricordi sbiaditi di quel che siamo stati: fissare un particolare modo di vivere la natura del punk, con l'auspicio che altri possano fare la stessa cosa meglio di noi in futuro, è un modo per riflettere su di noi e rilanciare oltre. Chiederci quali sono le nostre ambizioni, cosa vogliamo davvero fare/essere nella nostra vita, mentre le scelte fatte in passato stanno bussando alla nostra porta per chiederci il conto. E, soprattutto, continuare a domandarci come ci siamo ficcati in questa storia del punk e come mai non riusciamo/vogliamo più uscirne. Già...Come mai? Infine, in questi tempi di superficialità e velocità, la capacità di approfondire e di creare dei contenuti originali e di sostanza, di porre domande urgenti sulla carne viva delle nostre anime, crediamo abbia un qualcosa di sovversivo. O, perlomeno, è qualcosa di più rispetto alla pratica becera tipo copia/incolla del "condividi" dei social, dove tutto si diffonde senza che necessariamente sia richiesto di comprenderlo, ma solo per "costruire" una nostra presunta identità virtuale. Nella più sua più profonda concezione, il diy è un'esperienza esistenziale: non è importante il manufatto che si crea, ma la strada che si ha percorso. Ciò che sta nel mezzo tra noi e l'utopia...


I disastri non si contano
Una cosa, puntata dopo puntata, finalmente l'abbiamo capita: l'urgenza di "fare qualcosa" per emanciparsi dal grigiore quotidiano è infinito e sublime motore di disastri! Formare un gruppo, un collettivo, registrare un disco, andare a suonare con attrezzature tecniche penose, impianti voce collegati allo stereo hi-fi del locale (puntata 25), dormire in mezzo all'erba (puntata 32), alle formiche, al freddo polare o al caldo tropicale, macinare chilometri per poi dimenticarsi la distro e tornare indietro (puntata 16), concerti nei paesi baschi davanti a zero paganti (puntata 6) e registrare una puntata seduti sul marciapiede per strada con una tempesta in arrivo (puntata 33)...insomma, i disastri sono sempre abbondanti e, secondo noi, molto più divertenti e originali delle scontate cose ben riuscite. Il bello di questa "voglia" è che ci porta sempre a rilanciare e a trovarsi in situazioni sempre più disastrose, più disagiate ma confindando – ovviamente – nelle magiche proprietà salvifiche di una musica che non smette ancora di accenderci. Insomma, anche se per quest'anno i disastri radiofonici sono finiti, ma non pensate di essere al sicuro: troverete senz'altro qualche situazione estrema (quasi) come un concerto all'aperto d'estate, sotto il sole e senza birra. Brrr...che incubo!

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