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11/11/14

[We talk about...antipsychiatry!]
Il pensiero antipsichiatrico di Giorgio Antonucci, un'intervista a cura di Rapa Viola, Camap e Kalashnikov collective (27 luglio 2014, Firenze)
[Sarta] “Lo scorso luglio ricevetti una chiamata sul cellulare: era Dani, voce degli Ebola nonché agitatore del Collettivo Antipsichiatrico Camuno (Camap), che mi disse di avere la possibilità di intervistare il noto medico e psicanalista Giorgio Antonucci, uno dei più importanti punti di riferimento per il movimento antipsichiatrico in Italia. Uh, bene! L'idea era di andare tutti a Firenze, fare questa chiacchierata con il Nostro e poi rovesciarsi tutti a Villa Panico (il celebre ex-manicomio ora occupato dai punx) per fare un concertone a tema antipsichiatrico e festeggiare tutti insieme. La proposta era ovviamente estremamente allettante, tuttavia avevamo già fissato per quel sabato un concerto a Carrara in un circolo di compagni anarchici, una di quelle situazioni un po' vetero che ci piacciono tanto. Che fare quindi? Ci pensa Peppus, il membro-ombra del nostro collettivo, che si aggrega all'allegra comitiva e porta a compimento la missione!
Il risultato di tutto ciò lo potete vedere qui sotto: una lunga chiacchierata di circa 40 minuti, dove Antonucci spazia in maniera estremamente lucida dai fondamenti della psichiatria (una disciplina che “si occupa del dissenso” e che non ha nulla a che vedere con “la scienza medica” ma si basa sul “giudizio del pensiero altrui”), alla critica di alcuni dei più importanti pensatori antipsichiatrici (da Thomas Szasz a Edelweiss Cotti, passando per l'analisi dei sociopoteri di Michel Foucault) fino all'interessante racconto di alcuni episodi della sua carriera professionale, che ben delineano il carattere aleatorio e repressivo della cosiddetta “scienza” psichiatrica. Dalla storia della suora rinchiusa in manicomio e sottoposta all'elettroshock perché, stanca di “essere sposa di Cristo”, voleva sposarsi sul serio, fino al crudo racconto delle più minuziose e terribili torture praticate sui “pazienti”, Antonucci disvela con estrema chiarezza il vero volto di questa pseudo-disciplina: lo stesso Sigmund Freud, eccellente neurologo prima di diventare il padre della psicanalisi, sostenne che per andare oltre occorreva diventare “biografi”, ovvero capire le singole storie delle persone per comprenderne i comportamenti. Da questo punto di vista, psicofarmaci, manicomi e lettini di contenzione non sono altro che strumenti repressivi di annichilimento degli individui che nulla hanno a che vedere con la cura e la scienza medica ma solo con la repressione e il controllo sociale: “se si è disposti ad ascoltare gli altri, non crollano solo i manicomi ma tutto il castello della psichiatria”. Nel ringraziare Rapa Viola, il Camap nonché Marky per le riprese, vi auguriamo buona visione!".

 

Bibliografia essenziale degli scritti di Giorgio Antonucci:
I pregiudizi e la conoscenza. Critica alla psichiatria (Cooperativa Apache, 1986)
Il pregiudizio psichiatrico (Eleuthera, 1989 e 1998)
La nave del paradiso (Spirali, 1990)
Aggressività. Composizione in tre tempi
in Uomini e lupi (Eleuthera, 1990)
Critica al giudizio psichiatrico (Sensibili alle foglie, 1993 e 2005)
Contrappunti (Sensibili alle foglie, 1994)
Il giudice e lo psichiatra in Delitto e castigo (Eleuthera, 1994)
Il Telefono Viola, insieme con Alessio Coppola (Eleuthera, 1995)
Pensieri sul suicidio (Eleuthera, 1996)
Le lezioni della mia vita. La medicina, la psichiatria, le istituzioni (Spirali, 1999)
Diario dal manicomio. Ricordi e pensieri (Spirali, 2006)

Altri testi di riferimento sul tema dell'antipsichiatria:
Thomas Szasz, Il mito della droga. La persecuzione rituale delle droghe, dei drogati e degli spacciatori (Feltrinelli, 1997)
Thomas Szasz, Il mito della malattia mentale (Spirali,2003)
Edelweiss Cotti, Roberto Vigevani, Contro la psichiatria (La Nuova Italia, 1970)
Franco Basaglia (a cura di), Che cos'è la psichiatria? (Dalai, 1997)
Franco Basaglia (a cura di), L'istituzione negata (Baldini e Castoldi, 2014)
Franco Basaglia, Conferenze Brasiliane (Raffaello Cortina, 2000)

18/08/14

Robert Hanna
[We talk about...]
COUNTDOWN TO ARMAGEDDON! 
(Post-crust from Seattle, U.s.a.)
[Puj] Il due settembre prossimo suoneremo a Milano con gli amici dei Countdown to Armageddon, trio di Seattle, U.S.A., al loro secondo tour europeo. Non fatevi ingannare dal nome! Non si tratta del solito d-beat apocalittico: la loro musica sta in bilico tra post-punk, crust e...beh, sì, grunge!
Considerata la città di provenienza della band, ovvero l'epicentro di quel fenomeno musicale degli anni '90, potrebbero non essere un caso! Tutti i punk della nostra generazione sono cresciuti con i dischi grunge, e sotto sotto oggi li amano più di allora. Anche Zack, batterista dei C.T.A. pare aver avuto un trascorso simile: "Sono cresciuto negli anni '90 e ho ascoltato un sacco di musica grunge in quel periodo, I Nirvana sono stati il mio gruppo preferito da quando avevo circa 12 anni. Ho imparato a conoscere il punk, metal e rock n 'roll da tutte quelle band. E divertente vedere che da queste parti pare esserci un revival grunge... ma con un taglio più hipster!". E' vero, anch'io l'ho notato caro Zack: il grunge oggi è... figo!
"Ascolto ancora un sacco di dischi grunge degli anni '90 - aggiugne Rob (chitarra/voce) - anche se alcuni di essi non sono invecchiati così bene :) E 'un peccato che la scena di Seattle sia stata così sfruttata dall'industria discografica durante quel periodo, perché un sacco di quelle band in realtà hanno scritto canzoni davvero belle, con produzioni pesanti e oscure". E Dav (basso/voce)? "Dirt degli Alice in Chains è ancora uno dei miei dischi preferiti!". 
I componenti del terzetto non hanno però vissuto in città ai tempi del grunge: si sono infatti trasferiti a Seattle da Denver, Colorado, nella prima metà degli anni zero, periodo nel quale hanno formato la band: (Zack) "Non ero a Seattle negli anni '90 così ho visto le stesse cose che hanno visto gli altri sulle riviste e in televisione. Quando mi sono trasferito qui il fenomeno si era spento del tutto".

Dav Tafoya
Formatisi nel 2003, solo nel 2008 i C.T.A. pubblicano il loro primo album, intitolato "Eater of worlds", fondamentalmente un buon album di crust melodico che raccoglie materiale scritto in un lungo periodo di tempo, inframezzato da un'altrettanto lunga pausa di ben tre anni. Quella di "Eater of Worlds" forse può sembrare una band ancora in cerca della proprio strada; una strada che i tre imboccheranno, senz'ombra di dubbio e con la sicurezza dei veterani, nel disco successivo: il bellissimo "Through the wires", prodotto dalla leggendaria Skuld Release (chi ascoltava crust e anarcopunk negli anni '90 ben conosce questa label tedesca!). "Through the wires" è un piccolo capolavoro nel quale emergono le influenze dark e grunge di cui abbiamo poc'anzi parlato. 
La causa del brusco cambiamento di rotta tra un disco e l'altro pare sia da attribuire ad una full immersion forzata nelle canzoni dei Cure: (Rob) "Durante il tour di "Eater of worlds" abbiamo imparato un sacco di cover dei Cure per uno spettacolo di Halloween che abbiamo tenuto come ultima data. Quell'esperienza ha spostato il nostro songwriting e "Through the wires" ne è stato il risultato, nonché il primo disco che abbiamo scritto con un concept unitario". 
Non fraintendete: i pezzi di Through the wires sono certamente ottime canzoni post-punk, ma come se fossero i Black Flag o i Machine Head a suonarle!
L'album ha una copertina molto suggestiva, ed anche piuttosto enigmatica, per questo abbiamo chiesto delucidazioni a Rob: "Ho scattato quella foto nei pressi del confine tra Canada e lo stato di Washington. L'idea mi è venuta scrivendo il testo della canzone che ha dato il titolo all'album. La canzone parla di ricongiungersi alla natura per sfuggire alla giungla di cemento della città; ho pensato che sarebbe stato interessante lasciare un po' libera interpretazione all'osservatore: quella persona che giace tra l'erba in copertina è viva, morta o dorme? Il protagonista della foto è in realtà il nostro amico Brandon, che suona con me in un'altra band chiamata con Sick Ward".

La copertina di "Through the wires"
Zack Alexander
La data del due settembre a Milano, al T28 assieme a noi, sarà la prima di un tour che porterà i C.T.A. a girare l'Europa: Francia, Olanda, Germania, con alcune partecipazioni prestigiose come l'Enemy of the Sun di Praga. Non si tratta della prima esperienza della band nel nostro continente, per cui ho chiesto loro che impressione si siano fatti della scena punk D.I.Y. europea sulla base degli scorsi tour. Sono emerse riflessioni interessanti: (Rob) "Ho visitato l'Europa nel 2002 con la mia vecchia band Phalanx, ho passato un sacco di tempo in tour con loro e sono rimasto subito colpito dal livello di organizzazione underground e del senso di comunità che c'è in Europa. La differenza principale tra Stati Uniti ed Europa è che gli americani hanno meno senso di comunità degli europei; la nostra é una cultura individualista che è focalizzata sul materialismo e sul guadagno personale più che su ogni altra cosa. Un sacco di lavoro sulla comunità che avviene negli Stati Uniti proviene dai punk che hanno viaggiato all'estero e hanno visto come altri gruppi lavorano insieme, ma si tratta ancora di poche persone e lontane tra loro. 
Dopo quelle prime esperienze io e i miei amici abbiamo cercato di portare alcuni di questi elementi della scena europea nella nostra, qui negli U.S.A. (vale a dire, per esempio, cucinare per le band in tour, fare attenzione che le band abbiano luoghi dove dormire, ecc.). Il nostro tour nel 2012 è stata un'esperienza positiva: pensiamo che gli europei apprezzino quello che facciamo più di quanto accada negli Stati Uniti". 
(Dav) "Sembra che gli europei siano più addentro alla nostra musica rispetto agli americani. Sono entusiasta di tornare in Europa e suonare con band che hanno idee in comune con noi, qualsiasi genere di musica suonino".
(Zack): "Ho sicuramente apprezzato l'aspetto comunitario della scena punk europea. Tutti lavorano insieme verso un obiettivo comune. Cerco di portare quest'aspetto comunitario con me ovunque vada. Stabilire un terreno comune con le persone è importante!".

Virando il discorso sull'Italia é venuto allo scoperto l'amore che i tre di Seattle nutrono per le vecchie e meno vecchie band italiane. Aaah, sempre la stessa storia: tutti cadono ai nostri piedi, siamo irresistibili!: "(Rob) Uno dei primi dischi in vinile che ho comprato è stata una copia di "Solo Odio" degli Impact. E' stato in un negozio di dischi usati in Colorado, l'ho comprato senza sapere cosa fosse perché sembrava punk. E ha totalmente cambiato la mia vita! Dopodiché sono stato ossessionato dal punk italiano: Cheta Chrome Muthafucker, Declino e Peggio Punx soprattutto. La compilation P.e.a.c.e./War e il cd antologico della Antichrist Dyonisus mi hanno acceso l'interesse per tutta quella roba".
(Zack) "Conosco vecchie band italiane come Wretched, Raw Power, Impact, Negazione, Eu Arse. In questo tour suonremo con gli Indigesti e per noi è eccitante! Attraverso Mila e Koppa (Agipunk) ho avuto modo di conoscere altre band italiane come Kontatto, Guida e i Barbarian, che mi piacciono molto". (Dav) "Wrethced e Impact!".
Bene, e ora? E ora andate ad ascoltarvi i C.T.A. sul loro Bandcamp, no? Quanto a noi, ci vediamo martedì 2 settembre a Milano, luridi punx!


11/01/14

[we talk about... us!]
Più che una band? Intervista al Kalashnikov collective sul blog di Epidemic Records!
[Puj] Da una simpatica chiacchierata con l'amico Gab degli Smashrooms intorno a temi un po' "trascurati" della nostra scena punk/h.c. è nata l'idea di questa intervista pubblicata sul blog di Epidemic Records.
Se queste cose risultano interessanti, molte volte, è mertio più delle domande che delle risposte: quindi, grazie Gab!

>>> Intervista!

05/03/13

[Interviews]
Nicoletta Poidimani - Rispettabilità e “bonifica umana” nell'epoca della “sicurezza”(2009) e intervista ad Alex B. su "La società de-generata"
(Nautilus, 2012)
 
[Pep] La produzione teorica di Nicoletta Poidimani, trovando la sua trasgressiva ascendenza nell'imprescindibile pensiero filosofico di Luciano Parinetto, si muove con brillante radicalismo nel campo della critica all'eteronormatività e più in generale ai costrutti identitari che da essa discendono e conducono all'effettualità la sua funzione omologatrice (costantemente colti nel quadro complessivo di quell'entità disciplinare ad esito normalizzatore che il discorso di Monique Wittig nomina Straight Mind). Nel saggio che il Kalashnikov Collective Headquarter presenta ai propri lettori risulta centrale la critica alla predominanza culturale che negli ultimi anni è venuta conseguendo nella società la categoria del territorio inteso quale orizzonte della conflittualità sociale, obnubilando le sedi e le dimensioni reali di quest'ultima: al  riguardo sono di perenne validità le considerazioni di William Burroughs sul dileguarsi del territoriale (così, egli, su Paris Review, attesta “la speranza di sviluppare l'esperienza corporea e, in definitiva, di sfuggire allo stesso corpo, alle coordinate tridimensionali e alle concomitanti reazioni animali di paura e di fuga, che conducono inevitabilmente ai conflitti e alle dimensioni tribali”, nell'ottica di una ipotizzata mutazione biologica che ci consenta di oltrepassare il sistema restrittivo dell'economia dei bisogni e dei desideri: “Se solo le persone dominassero il loro corpo sembrerebbero sovrumane […]. Il solo problema è che dopo più millenni non hanno ancora imparato a far funzionare la loro stessa macchina”). In tal modo l'autore de “Il pasto nudo” evidenzia compiutamente la sopravvenuta irrilevanza del paradigma euclideo nell'ambito di una contemporanea concettualizzazione della sfera politica e relazionale. L'evasiva involuzione paradigmatica della politica contemporanea è orientata all'obnubilamento della sfera corporea quale campo effettivo del conflitto politico, nel suo essere intersecata da parte dei processi esproprianti di reificazione o agita dalle dinamiche, di opposto segno, di autoappropriazione ed autodecisionalità. 
Già Franco Basaglia nel 1967 leggeva i processi di reificazione corporea quali vettori dell'esclusione sociale e fattori della sue fondative costruzioni identitarie, così esprimendosi, ad evidenziare chiaramente il rapporto endosoggettivo col corporeo quale cruciale baricentro del confliggere politico ed ambito di intervento dell' ingannatrice strategia giudaico-cristiana del capro espiatorio: “Se si esaminano gli elementi sui quali si fondano le discriminazioni razziali, classiste ecc., ciò che risulta evidente è il carattere oggettuale dell'escluso; e ad un esame più attento la sua riduzione a pura corporeità, materialità, passività. In definitiva, solo nel momento in cui riduco a corpo un'altra soggettività posso escluderla da me: ciò significa che l'escludente si pone come soggettività pura (quindi ideologica e adialettica), proiettando nell'altro la sua oggettività. In questo senso l'esclusione di gruppi, la cui negazione consente la vita apparentemente aproblematica e acontraddittoria della nostra società, si riallaccia al rito biblico del capro, in quanto esclusione e negazione dell'oggettuale e del corporeo attraverso un corpo. Se l'escluso è corpo, l'esclusione è giustificata sul piano della necessità, come affermazione dei nostri valori soggettivi. Il che consente la totale assenza di colpa e di responsabilità da parte di chi esclude. Non a caso le categorie degli esclusi sono definite dagli escludenti con similitudini che puntualizzano il loro carattere oggettuale, il loro essere un corpo defraudato della propria soggettività. L'ebreo ha il naso adunco dell'uccello rapace; la donna giovane e bella ha la grazia di una cerbiatta; la prostituta è una vera vacca; il negro è una bestia («rappresenta il pericolo del biologico» dice Fanon); il malato mentale è «pericoloso a sé stesso, agli altri e di pubblico scandalo» (il che significa corpo, oscenità, spudoratezza al di là di ogni controllo soggettivo), il bambino è un cucciolo che fa tenerezza ecc. Nel momento in cui queste categorie siano state fissate nella loro corporeità non sono più in grado di mettere in discussione la nostra soggettività: la distanza che le separa dai nostri valori è incolmabile. I rotocalchi di quest'ultimo periodo continuano a offrirci esempi direi paradigmatici di quanto vado sostenendo. E' ormai usuale trovare in prima pagina la fotografia di un negro ucciso[...] Il negro, nella morte viene presentato finalmente come qualcosa di accettabile: si può provare pena per lui, per il suo corpo morto. In quanto corpo non rappresenta più un pericolo, così come non era stato un pericolo fino a quando aveva riconosciuto la distanza che lo separava dal bianco: fino a quando aveva accettato di essere oggettivato ai suoi occhi. Nella ribellione al bianco il negro ha ritrovato la sua soggettività, ma è morto ed è rientrato nella sola dimensione che gli è stata concessa da sempre: quella di essere un corpo”. A quest'ultima modalità di politicizzazione del corpo vittimario (a tutt'oggi evidenziabile nel caso dell'operaio, alla marginalità mediatica della cui figura fa da complemento l'improvvisa centralità di essa in caso di morte per un incidente sul lavoro) sembra essersi prevalentemente sostituito, come sottolinea Poidimani, il suo occultamento invisibilizzante, cui fa da parallelo la ricerca di omologazione, in seno ad una sfera normativa relativamente ampliata, o più propriamente rimodulata, da parte di ampi settori dei movimenti per i diritti civili delle minoranze stigmatizzate: alla opportunistica ed impaurita ricerca, mette in luce Poidimani, della rispettabilità.

>>> Download Nicoletta Poidimani "Rispettabilità e «bonifica uman nell'epoca della sicurezza" (2009) in pdf (4 mbyte)

E introdotto proprio da Nicoletta Poidimani (con il saggio Queer et nunc) è il recente volume, straordinario per la capacità di riguadagnare centralità politica al corporeo, “La società de/generata. Teoria e pratica anarcoqueer” (Nautilus, 2012), di Alex B., militante antispecista e squatter (passato attraverso l'esperienza di Arcigay e di Crisalide Azione Trans), che vi svolge una puntualissima analisi della valenza mistificatoria del concetto di genere, nel suo sviluppo storico ed in relazione al sapere scientifico ed alla psichiatria (correttamente definita dall'autore come la pseudo-scienza attraverso cui il potere “può […] estendere il suo controllo ai comportamenti umani che risultano scomodi per  la società, ma non punibili dalla legge”): con un'altrettanto forte attenzione per la storia dei movimenti di resistenza queer all'eteronormatività e alle logiche assimilazioniste dei versanti riformistici del movimento GLBT, proseguendo la fondamentale opera cominciata negli anni Settanta da pensatori come Mario Mieli e Luciano Parinetto. Ad Alex, che ringraziamo per la sua disponibilità, il Kalashnikov Collective ha rivolto alcune domande. 

1. [Pep]" Troviamo particolarmente interessante il concetto, cui tu fai riferimento, di essenzialismo strategico, che riconduci alla teorica Gayatri Chakravorti Spivak, e che fonda la possibilità di un uso politico dell'identità di genere circoscritto e strumentale, nell'ambito di una strategia più complessiva volta a produrne infine la dissoluzione. In che senso e a che condizioni lo trovi applicabile nell'ambito delle attuali strategie dei movimenti queer?"

[Alex] "Per prima cosa voglio ringraziare i Kalashnikov per questa intervista e per l'interesse verso il mio libro. Vorrei premettere che non sono un teorico ma un militante anarchico, e che per me la teoria ha senso solo se affiancata da una pratica corrispondente. Possiamo sederci in un salotto e discutere per giorni di teoria queer, ma se poi usciamo da lì e non cambiamo niente nelle nostre vite, allora è stato inutile. Mi interessa quindi discutere di teoria, anche per un accrescimento personale e per un confronto con altre persone interessate a queste tematiche, ma mi interessa molto anche cercare i risvolti pratici che se ne possono trarre, e in particolar modo capire come trasformare queste riflessioni in strategie di lotta che ci permettano quantomeno di aprire qualche breccia nel sistema di dominio. Per rispondere alla tua prima domanda, vorrei prima spiegare cosa si intende per “essenzialismo strategico”, dato che immagino non sia così evidente a tutti. Con questa espressione si intende quella strategia di lotta che per ottenere dei risultati politici riunisce sotto uno stesso “ombrello” tutta una serie di persone accomunate da una presunta “identità” comune: è stato così per il movimento delle donne, per i movimenti delle persone gay, lesbiche, trans, per il movimento dei neri, e questi sono solo alcuni esempi. La Spivak considera questo tipo di essenzialismo come un “errore necessario”, perchè ritiene che solo associandosi sulla base di quelle stesse categorie che causano la nostra oppressione si può portare avanti una lotta con degli obiettivi concreti. Questa strategia ha i suoi pro e i suoi contro, indubbiamente queste lotte che hanno unito tutta una serie di individui sulla base di una comune oppressione hanno ottenuto grandi effetti di cambiamento culturale sulla società e hanno contribuito a ottenere alcuni miglioramenti a livello legale, ma non a incidere in profondità sulla radice delle discriminazioni. Il problema di questo tipo di politica “identitaria” è che ribadisce proprio l'essenzialismo che questi stessi movimenti vorrebbero distruggere, ovvero la credenza che il proprio genere, la propria sessualità, il colore della pelle ecc. definiscano la propria intera essenza, specialmente se non si è parte della categoria dominante. Questo rafforza una visione del mondo shematica e binaria (uomini/donne, eterosessuali/gay, bianchi/neri, ecc.) che è limitante per chiunque e porta a tutta una serie di esclusioni nei confronti di altri individui che non rientrano chiaramente in queste categorie. Inoltre queste semplificazioni hanno portato spesso a far passare in primo piano le rivendicazioni di quella parte del gruppo oppresso che era più privilegiata; ad esempio la maggior parte dei movimenti femministi si sono concentrati sulle rivendicazioni che più riguardavano le donne bianche, di classe media, occidentali, non tutte le donne, e lo stesso è accaduto per quanto riguarda i movimenti GLBT, dove i soggetti più marginali (trans, crossdressers, genderqueer, persone di colore) sono stati marginalizzati ancora di più, e in primo piano è stata posta la visione di quelle persone GLBT più “normalizzate” che altro non chiedevano che di essere inserite nella società senza criticarne le strutture oppressive.
L'attuale movimento queer cerca quindi di decostruire, e di distruggere, queste categorie rigide ed escludenti di uomo/donna, eterosessuale/gay ecc. ecc. in favore di una visione inclusiva di tutte le diverse possibili identità di genere e preferenze sessuali. Anche il movimento queer, pur volendo distruggere queste categorie, sta comunque utilizzando strumentalmente una certa forma di essenzialismo: lo stesso termine “queer”, pur essendo una non-identità dai confini incerti, viene utilizzato talvolta proprio per distinguere tutte le soggettività che non aderiscono alla Norma binaria ed eterosessuale dei generi. Anche questa diventa quindi una sorta di identità funzionale alla lotta, basata sulla posizione di esclusione che nella storia gay, lesbiche, trans e individui di altri generi hanno sempre subìto, e che ora viene ribaltata in senso positivo come punto di partenza per contrattaccare". 

2. [Pep] "Il movimento queer, tu sottolinei, propone un'ottica sex positive. Come rispondi alla condanna che il femminismo muove spesso nei confronti della prostituzione e della pornografia, nonché più in generale all'attacco alla sessualità, identificata in quanto tale con l'eterosessismo patriarcalmente fondato, che alcuni filoni di esso promuovono (si pensi ad esempio al discorso di una fondamentale teorica anti-patriarcale come Catharine MacKinnon)?"

[Alex] "Innanzitutto vorrei chiarire che quando sottolineo l'ottica sex-positive del movimento queer non è affatto per porla in contrasto con una presunta ottica sex-negative spesso associata al femminismo. Credo sia un errore considerare la critica che alcuni filoni del femminismo hanno mosso alla pornografia mainstream e alla prostituzione, in quanto espressioni del patriarcato e dell'eterosessismo, come una condanna tout-court alla sessualità. A meno che ovviamente non riteniamo che l'unica “vera” forma di sessualità sia la penetrazione vaginale da parte di un pene. Trovo anzi sia fondamentale per giungere a una visione liberata della sessualità porre in critica le manifestazioni sessiste di cui sono impregnate la nostra cultura e il nostro immaginario, e la pornografia eterosessuale mainstream fa parte di queste. Allo stesso tempo trovo importante valorizzare, come fa il movimento queer, una sessualità liberata dai canoni estetici dominanti e che rivaluta quelle forme di sessualità da sempre considerate abiette o perverse, promuovendo la varietà e la ricchezza di pratiche che ci possono condurre al piacere, ovviamente nell'ambito del consenso totale tra le persone coinvolte. Ritengo che questi due aspetti debbano andare assolutamente di pari passo e non siano in contrasto tra di loro, ma che anzi siano entrambi fondamentali.
Non ho mai approfondito i testi di Catharine MacKinnon e Andrea Dworkin, le due principali esponenti del filone anti-pornografia del femminismo anni '80, non entrerò quindi in dettaglio sulle loro posizioni. Quello che certamente non condivido è il loro approccio legalista, appellarsi allo Stato perchè approvi leggi che proibiscano la pornografia. L'abisso che ci separa è evidente già dal titolo del libro della MacKinnon “Toward a Feminist Theory of the State” (Verso una teoria femminista dello Stato). Per quanto mi riguarda lo Stato deve essere abbattuto e basta, non riformato in chiave “femminista” o di altro tipo, non esiste riforma che possa cancellare la natura intrinsecamente autoritaria dello Stato. Da questo punto di vista, posta la critica alla pornografia eterosessista mainstream, apprezzo molto di più un approccio alla Rote Zora, gruppo militante femminista attivo nella Germania dell'Ovest a partire dal 1977, che attaccava con congegni esplosivi sexy shops, proprietà di trafficanti di donne, multinazionali farmaceutiche che traevano profitto dalla medicalizzazione del corpo della donna, associazioni anti-abortiste e quant'altro.
Tornando al discorso della pornografia, la mia opinione non è ovviamente di totale condanna, al di là dei circuiti commerciali esistono anche delle autoproduzioni porno queer underground, che mostrano un tipo di sessualità e di corpi non stereotipati e oggettificati. Anche tutta la corrente del post-porno potrebbe essere interessante, se non fosse ancora così egemonizzata da una rappresentazione di tipo eterosessuale, e se non fosse per il fatto che spesso mette in scena pratiche non consensuali tra esseri umani e animali (vivi o morti); in questo caso si vuole fare passare per “artistico” tutto quanto è scioccante e fuori dalla norma, senza però alcuna riflessione politica di fondo.
Anche per quanto riguarda la prostituzione il discorso sarebbe complesso, oltre all'ovvia condanna per tutte quelle situazioni in cui vi è una forma di coercizione, non considero la prostituzione peggio di altri lavori; ogni tipo di lavoro svolto in cambio di soldi è una svendita del proprio corpo, della propria mente e di una parte importante della propria vita. Quando la prostituzione come lavoro viene liberamente scelta (vi sono molte donne prostitute che se lo rivendicano) non trovo motivi per intromettermi. In ogni caso, e questo vale per tutta una serie di situazioni, ritengo sia sempre meglio lasciare che a parlare di sé sia chi certe situazioni se le vive, anziché irrompere dall'esterno con giudizi moralistici che spesso non rappresentano nemmeno chi stiamo goffamente tentando di “difendere”.

3. [Pep] "Quali ritieni essere nell' ambito della produzione artistica contemporanea gli autori o i filoni di ricerca più prossimi alla sensibilità queer?"

[Alex] "Non seguo molto le novità editoriali in ambito di ricerca queer, e negli ultimi anni ho sviluppato una certa allergia per le produzioni provenienti dall'accademia. Gli studi “di genere” o “queer” sembrano essere diventati molto di moda, per fortuna o per sfortuna l'Italia sembra essere immune da questo trend, quindi di questa produzione saggistica ci arriva poco o nulla. Le mie letture spaziano su argomenti tra i più vari, e proprio da questa varietà cerco di trarre spunti che colleghino varie tematiche e lotte. Anche dagli studi accademici si possono trarre spunti interessanti, ma l'importante è sempre mantenere uno sguardo critico e avere ben presente la posizione privilegiata di classe di chi scrive, che spesso è ben diversa da quella dei soggetti oppressi di cui ama scrivere. Mi è piaciuto molto ultimamente il libro di Julia Serano, Whipping Girl: A Transsexual Woman on Sexism and the Scapegoating of Femininity (in inglese), una raccolta di saggi transfemministi che offre una nuova prospettiva molto interessante sulle questioni di genere, sul sessismo, il femminismo e la transfobia. E' stato poi da qualche mese tradotto in italiano un classico della teoria queer che consiglio di leggere: Stanze private: epistemologia e politica della sessualità, di Eve Kosofsky Sedgwick. Nell'ambito invece dell'attivismo vero e proprio, sono in attesa di trovare il tempo di leggere l'antologia di testi di Bash Back! (un network di gruppi anarchici queer statunitensi che si basano sull'azione diretta) “Queer Ultraviolence” (in inglese).
Altre letture sugli argomenti queer me le forniscono invece le 'zines autoprodotte, di cui sono un grande fan, se ne possono trovare in gran quantità in inglese su zinelibrary.info, in francese su infokiosques.net e in italiano su anarcoqueer.wordpress.com".

4. [Pep] "Nel tuo volume è giustamente riservato largo spazio ad una figura di indubbia grandezza quale Mario Mieli. Questo imprescindibile filosofo milanese, nei suoi “Elementi di critica omosessuale”, intreccia, secondo proprie specifiche modalità, una visione anti-psichiatrica radicalizzata (entrando in polemica con le posizioni dell'antipsichiatra David Cooper), con le sue prospettive teoriche transessualiste riguardanti le problematiche di genere: l'esperienza “psicotica” viene ad acquisire la sconvolgente valenza di un'immersione rivelatrice nella natura transessuale profonda dell'essere umano. Quali specifici intrecci tu pensi possa avere la battaglia portata avanti dai movimenti anti-psichiatrici in relazione a tematiche quali la “follia” e, più in generale, la “psicopatologia”, e la liberazione dai codici di genere?"

[Alex] "Sì, sono un grande amante della figura di Mario Mieli! Definirlo filosofo è riduttivo, dal momento che non è mai stato un intellettuale che produceva teoria fine a sé stessa, ma anzi la teoria che ha prodotto non è stata altro che una piccola parte della sua vita. Nella sua vita teoria e pratica coincidevano, il suo stesso essere e il suo modo di rapportarsi al mondo, sempre schietto e disturbante, erano la sua principale forma di attivismo. Quando lessi “Elementi di critica omosessuale” mi colpì molto proprio il capitolo “Il trip schizofrenico e la transessualità”, che infatti ho ri-editato sotto forma di opuscolo con un'introduzione. Mario fin dall'infanzia aveva visioni mistiche ed esoteriche, e per gran parte della vita ha attraversato esperienze come sentire le voci, vedere connessioni ancestrali dietro le persone che lo circondavano, credersi il Messia. Ovviamente questa sensibilità e percezione differente dalla norma lo portarono anche a finire recluso in strutture psichiatriche, ed è proprio in quei luoghi che il suo trip continuò e lo portò a sperimentare, quasi come un'esperienza mistica, la transessualità. Purtroppo finora non ho mai visto grandi connessioni tra le lotte contro la psichiatria e i movimenti queer: le prime raramente prendono in considerazione le tematiche di genere, benchè siano decine le pratiche sessuali e le identità di genere non normative ancora annoverate tra le patologie psichiatriche “ufficiali” (transessualismo, travestitismo, feticismo, sadomasochismo, ecc. ecc.); e viceversa raramente i movimenti GLBT hanno portato una critica radicale alla psichiatria. Questo momento di incontro sarebbe potuto avvenire con la campagna “Stop trans pathologization” portata avanti dal movimento trans internazionale negli ultimi anni allo scopo di “depatologizzare” l'identità trans e fare pressione per l'eliminazione delle categorie “disforia di genere” / “disturbo dell’identità di genere” dalle prossime edizioni dei manuali diagnostici psichiatrici (DSM dell’Associazione Psichiatrica Americana e ICD dell’Organizzazione Mondiale della Sanità), previste per il 2013 ed il 2015. Se questa campagna fosse stata accompagnata da una critica a tutto tondo alla psichiatria, anziché come al solito ridurre i contenuti alla specificità delle proprie rivendicazioni non volendo vedere le connessioni con tutto il resto, sarebbe stata un'opportunità interessante per collegare i discorsi. Purtroppo si è trattato di un'occasione sprecata".

5. [Pep] "Mario Mieli è anche un teorico della pedofilia, apologizzata quale fattore di dissoluzione a livello infantile delle dinamiche identitarie “educastranti” imposte dal sistema familiare. Per quanto ci riguarda precisiamo che, a differenza di Mieli, non giudichiamo eticamente legittime le relazioni a carattere pedofilo: tuttavia siamo contrari alla psichiatrizzazione della soggettività pedofila, tramite la quale il sapere psichiatrico assolve la sua fondamentale funzione di camuffare strategicamente i veri contesti e significati delle azioni umane. Vorremmo quindi sapere come valuti i controversi movimenti, più o meno sotterranei, che rivendicano la pedofilia".

[Alex] "Non ho mai approfondito i discorsi dei movimenti che rivendicano la legittimità della pedofilia, anche se ho riflettuto un po' per conto mio sull'argomento. Alcuni anni fa ho letto un libro, “Diario di un pedofilo”, edito da Stampa Alternativa, che mi ha offerto un punto di vista sull'argomento molto diverso da quello che ci offrono i media sensazionalisti che non perdono occasione di additare il pedofilo come il peggior mostro. E' stato interessante leggere il punto di vista di chi una vicenda di questo tipo l'ha vissuta dall'altra parte; quest'uomo racconta il linciaggio mediatico e giudiziario che ha subito senza nessuna prova che i suoi rapporti con i ragazzini che frequentava non fossero consensuali, e questo è qualcosa su cui riflettere. 
Il discorso ovviamente è molto complesso e vi sono diversi fattori che si intrecciano. Per me l'unico principio morale valido nel campo dei rapporti sessuali è la consensualità. Se due o più individui sono consenzienti nella decisione di avere un rapporto, e del tipo di rapporto, in questo caso qualunque giudizio morale esterno è un'intromissione frutto solo di retaggi religiosi. Spesso si associa automaticamente pedofilia a stupro, ma è un errore, non è sempre così. Lo stupro è esattamente l'imposizione di un rapporto contro il consenso dell'altra persona, ed è una pratica che ovviamente rigetto con forza, che coinvolga persone adulte o bambini. Io credo vi siano però anche casi di rapporti adulti-minori che sono consenzienti. Esistono non solo adulti attratti da persone molto più giovani, ma anche bambini/adolescenti attratti da persone adulte, con cui ricercano un contatto sessuale (un amico qualche anno fa mi confessò che all'età di 6-8 anni “ci provava” esplicitamente con uomini adulti sperando di avere un contatto sessuale con loro; “speravo di trovare un pedofilo”, mi disse, ma non ci è mai riuscito se non diversi anni dopo). La difficoltà sta nel fatto che il consenso, tra adulti e bambini, è spesso influenzato dalle relazioni di potere implicite nei due ruoli, il che impedisce la libera scelta di entrambe le parti (specialmente della parte che subisce l'autorità, ovvero il bambino). Spesso vi sono di mezzo pressioni psicologiche, malizia e inganno messi in atto dall'adulto per ottenere il consenso “forzato” del bambino a un approccio sessuale. Questo non è reale consenso. C'è poi una notevole differenza nell'esperienza e nella percezione della propria sessualità a seconda dell'età. Un bambino ha una sessualità, contrariamente a quello che ci vogliono far credere, ma con ogni probabilità non sarà la sessualità “penetrativa” tipica del maschio adulto; spesso queste differenze non vengono rispettate. Per queste ragioni trovo sia molto difficile stabilire un reale consenso libero da relazioni di potere tra una persona adulta e una molto giovane, anche se non è impossibile. Meglio sarebbe se i bambini sperimentassero la loro sessualità con altre persone che sono allo stesso livello di crescita e consapevolezza. Lo stesso discorso potrebbe valere per i rapporti tra esseri umani e animali, dove ovviamente ci dividono diverse barriere tra cui quella del linguaggio che rendono molto difficile (ma non impossibile) stabilire insieme il consenso. 
Detto ciò, non ritengo che l'orientamento pedofilo sia “patologico” (che “patologia” è quella che non ha una cura?) e ovviamente, nemmeno ritengo sia da “psichiatrizzare”: non credendo nella psichiatria, non condivido le sue interpretazioni e non auguro i suoi “rimedi” punitivi a nessuno".

6. [Sarta] "Arriviamo invece a circoscrivere il discorso ad un ambito geografico-sociale: Milano e il contesto degli spazi occupati. Il tema che tu affronti, l'identità di genere come strumento per la normalizzazione degli individui e delle loro relazioni, è ancora lontano dall'essere dato per acquisito rispetto alle abituali tematiche trattate negli squat. Inoltre, anche durante i nostri concerti, assistiamo spesso a comportamenti che risultano conformi alla pratica etero-normante e alla logica dei ruoli di genere imposti, che cerchiamo per quanto possibile di stigmatizzare. Quali iniziative possono secondo te essere maggiormente efficaci per sviluppare una sensibilità in questo senso a partire dagli spazi occupati che frequentiamo?"

[Alex] "Io e le altre persone con cui vivo in uno spazio occupato ci stiamo provando da tempo, con ogni mezzo. Un primo passo importante può essere mettere a disposizione materiale per riflettere sulla tematica, nel caso qualcun* fosse interessato ad approfondirla, e rendere visibile l'attenzione sull'argomento: una distro ben visibile con libri e opuscoli su questi argomenti, un volantino all'ingresso, poster appesi in sala concerti, striscioni, e tutto quanto ci possa venire in mente. Raramente la situazione “concerto” è quella in cui le persone hanno voglia di fermarsi a leggere o riflettere, di solito sono più interessate a fare festa, quindi è importante creare anche altri momenti in cui si approfondiscono queste tematiche con presentazioni di libri, dibattiti, video ecc. Purtroppo molte persone vivono gli spazi occupati solo nei loro aspetti “ricreativi”, riproponendo così la logica del consumismo, a mio parere, e non sono interessate a partecipare alle altre iniziative politico-culturali. Nonostante tutti questi sforzi, infatti, le situazioni di merda ai concerti o alle feste continuano ad accadere: la battuta omofoba, l'approccio molesto, il machismo nel pogo, le scenate di gelosia... Credo che se vogliamo creare degli spazi più sicuri in cui davvero tutt* si sentano a proprio agio, senza discriminazioni di genere o sessualità, è fondamentale che tutt* si mettano in gioco in prima persona e reagiscano quando capitano episodi sgradevoli. Se sentiamo una battuta sessista, anziché starcene zitti, possiamo rispondere non lasciando questo “onere” solo alla persona che ha subìto la battuta. Specialmente le persone che fanno parte di una o più categorie “privilegiate”nella nostra società (per es. gli uomini eterosessuali, che non si devono subire il sessismo e l'omofobia nella loro vita quotidiana), se vogliono fare qualcosa contro il sessismo dovrebbero essere i primi a interrogare sé stessi e porsi criticamente di fronte ad altri uomini che esprimono atteggiamenti sessisti, per non lasciare che a rispondere alle discriminazioni e alle violenze sessiste/omofobe siano sempre solo le “femministe” o le persone GLBT. Insomma, sta a tutt* reagire quando queste situazioni capitano. Visto che parliamo di concerti, penso che un ottimo gesto da parte di un gruppo, nel caso di fronte ai loro occhi capiti qualcosa di sgradevole o si sentano battute sessiste/omofobe/razziste, ecc., potrebbe essere di interrompere il concerto e dire qualcosa dal palco".

22/08/11

[We talk about...Telos Occupato!]
Intervista ai ragazzi e alle ragazze del CSOA Telos
[Sarta] Circa due mesi fa siamo stati a cena dalle ragazze e dai ragazzi del Telos Occupato, squat di Saronno al quale, come tutti sanno, siamo molto legati. Nell'occasione, è saltata fuori un'intervista per la nostra rubrichetta "Cibo per cani", in onda sulle frequenze di RadioCane, nella quale ci siamo fatti raccontare come sono andati questi primi anni di occupazioni saronnesi. Ne sono usciti quaranta minuti di divertenti chiacchierate, con alcuni simpatici retroscena relativi ai precedenti tentativi di occupazione e ai rapporti con cittadini e autorità. Il Collettivo La Fenice, dopo varie vicissitudini, ha trovato qualche anno fa la sede che tutti conosciamo: uno spazio industriale dismesso non molto distante dalla stazione ferroviaria, abbandonato da molti anni, che è stato sistemato a dovere attraverso il lavoro e le pratiche di autogestione e autorganizzazione dei ragazzi e delle ragazze del collettivo. E oggi vi si fanno un mucchio di concerti, meeting, cineforum, dibattiti, mercatini...un luogo vivo, frequentatissimo, dove prima c'era il nulla. Fantastico, no? A pensarci bene, uno spazio così, credo che Saronno non l'abbia mai avuto in tutta la sua storia, ma forse mi sbaglio....Esagero? Mah... Comunque qui sotto potete scaricarvi l'intervista, che oltre ad essere divertente è pure interessante. E occhio al finale, c'è Pietro che fa le imitazioni, eh, eh...

>>> Download "Cibo per cani, 5° puntata, intervista agli occupanti del Telos" in mp3 (38 mb)

08/12/10

[Punx from Nepal]
RAI KO RIS (Kathmandu anarcopunk!)
[Puj] A Parigi, lo scorso settembre, abbiamo suonato assieme ad Olivier (batteria) e Sareena (chitarra e voce), ovvero l'anarco-punk duo dei Rai Ko Ris, la cui provenienza lascia esterrefatti: Kathmandu, Nepal!
La Repubblica Federale Nepalese si trova tra Cina ed India ed é universalmente nota come meta turistica (entro i suoi confini sorgono le montagne più alte del mondo), ma anche come paese poverissimo: circa la metà della popolazione nepalese vive con meno di un dollaro e mezzo al giorno.
Alcuni audaci promoter danesi ha
nno invitato Sareena e Olivier in Europa, pagando loro il bilgietto aereo di andata e ritorno, così i due ne hanno approfittato per fare un breve tour. Conoscevamo i Rai Ko Ris via lettera già da molto tempo e per tutto questo tempo ci siamo chiesti come diavolo potesse esistere una punk band in Nepal... per giunta dal 1997!

La s
toria della band, come si può ben immaginare, non é quella di un gruppo di adolescenti annoiati dei bassifondi di Kathmandu che imbracciano gli strumenti per urlare la propria frustrazione. Ovvero, non è la storia di una qualsiasi punk band occidentale. La verità é che Sareena e Olivier hanno vissuto per anni in Europa ed é da lì che hanno importato la cultura punk anarchica in Nepal. Olivier, lo si capisce senza grandi difficoltà, non é di origini asiatiche: é francese, ha 47 anni e si é trasferito in Nepal una quindicina di anni fa. Le cause della fuga? "Ehi no, aspetta! Io non sono fuggito dalla Francia, sono stato bene lì, suonavo la batteria e mi facevo gli affari miei... Mi sono solo imbattuto in un altro posto nel quale mi sentivo meglio dentro di me, più accettato. Così sono rimasto lì a vivere con quelle persone. Sai, queste parole come "Francia" e "Nepal" non significano molto per me... Hai ragione, probabilmente è perché l'Himalaya era ed é una realtà meno capitalista rispetto all'occidente che mi sono sentito meglio qui...".
Quando gli chiediamo se si sente di aver rinunciato a qualche privilegio lasciando l'occidente, s'incazza: "Privilegi? Non so di che privilegi parli! Proprio il fatto di essere "bianco" è un enorme privilegio in Nepal e davvero molti "bianchi" ci vivono, molti di loro presumibilmente per "aiutare" il popolo nepalese. Se volete, in Nepal, si può realmente ottenere uno status che non si può ottenere in occidente. A volte non capisco le persone che sembrano essere prigioniere della loro nazionalità e delle cosiddette culture, tradizioni o radici".

L'aspetto di Sareena é invece, senza dubbio, quello di un'affascinante ragazza himalayana, ma parla perfettamente inglese. Scopriamo infatti che ha trascorso l'adolescenza in Inghilterra: "Mio padre era un ragazzo dalle montagne. Gli inglesi cercavano forti, tenaci, incolti uomini nepalesi che vivevano sulle montagne, per reclutarli nell'esercito britannico. Questi soldati, conosciuti come Gurkha, sono ancora oggi mercenari nepalesi al soldo degli inglesi. Mio padre venne giù dalle montagne ed entrò nella brigata dei Gurkha per motivi economici. Fece carriera fino a diventare ufficiale, un rango abbastanza elevato per un nepalese, e poté garantire a sua figlia un'educazione esclusiva: mi spedì in un vecchio, decrepito collegio inglese! Dall'età di otto anni fino ai sedici (dal 1981 al 1989) ho frequentato una di queste scuole cristiane, lontano dalla famiglia e dal Nepal. In generale, come altri giovani nepalesi che sono stati spediti in Inghilterra a studiare, ho un ricordo molto negativo del mondo occidentale. Forse ero solo una ragazzina e volevo solo suonare rock con la chitarra. Sai, non era un granché crescere in un collegio inglese nel bel mezzo della campagna, durante il governo della Thatcher. Un periodo di merda, direi!".
I soldati della brigata Gurkha rappresentano tutt'oggi un'elite in Nepal: sono militari inglesi a tutti gli effetti e percepiscono uno stipendio impensabile per un nepalese. Tra l'altro il governo britannico concede a tutti i Gurkha fuori servizio la cittadinanza inglese così da favorirne il trasferimento in terra britannica (anche perché, così facendo, gli ex-militari possono spendere in Inghilterra le sterline guadagnate in anni di servizio!). Alla luce di tutto questo, la scelta di Sareena di tornare in Nepal, rifiutando le opportunità di una vita in Europa, lasciò sicuramente contrariati i suoi genitori: "Sono tornata in Nepal non appena fui abbastanza grande da prendere le mie decisioni, contro ciò che mio padre e mia madre pensavano fosse giusto per me. Ad esempio, un radioso futuro nel "mondo occidentale"... Molti dei miei amici nepalesi sono rimasti in Inghilterra, e questo li fa sentire dei privilegiati. Pensano che il Nepal sia un posto senza uscita. Io invece amo la vita in Nepal, rispetto a quella in Europa. Sto cercando di liberarmi di ciò che ho imparato stando in occidente, che mi é stato cucito addosso durante il periodo della mia educazione. Lo stesso vale per Olivier".

Il Nepal forse non é un "dead end place" come dice Sareena, ma é sicuramente un paese in cui si sta creando un notevole gap socio-economico tra la gente che vive nelle aree rurali e gli abitanti della capitale. Kathmandu, ci spiega Olivier, è il cuore del nuovo business globalizzato: "La città é piena di centri commerciali... è divertente vedere i contadini capitare in uno di questi negozi alla moda occidentale e fare incazzare il proprietario perché non hanno la minima idea di come ci si comporti in un posto del genere! Il governo ha abbandonato ogni progetto di rivalutazione delle campagne e la gente che vive nelle aree rurali si sposta all'estero, per lavori miseri e mal retribuiti. Tutta la ricchezza della nuova borghesia di Kathmandu non aiuta il Nepal, perché serve solo a comprare beni importati, che fanno la fortuna degli indiani, dei cinesi e delle multinazionali occidentali".
Dopo anni di scambi con la scena punk d.i.y. europea, nel 2004, Olivier e Sareena hanno deciso di aprire un infoshop a Kathmandu, con dischi, video, libri e materiale informativo sulla cultura punk d.i.y., ma anche come luogo di incontro per la gioventù cittadina dove organizzare feste e concerti. Nell'ultimo anno, però, stufi di pagare l'affitto al proprietario, hanno chiuso l'infoshop e l'hanno trasferito fuori dalla città, in campagna, nel villaggio dove vivono. Hanno deciso di trasformarlo in qualcosa di più utile per la comunità, organizzando attività per i bambini e per le donne delle campagne.
Dopo aver cercato di catalizzare
un'embrionale scena punk nella capitale, sembra che Olivier e Sareena si siano un po' disillusi sulle potenzialità del punk come forza di cambiamento e maturazione politica per le nuove generazioni nepalesi: "Finora in Nepal non c'è stata un'altra band di punk politico, oltre ai Rai Ko Ris, che abbia fatto uno show quasi ogni mese e sicuramente ogni anno dal 2000 ad oggi - dice Sareena - e credo che questo abbia a che fare con il fatto che io e Olivier abbiamo fatto una scelta di vita, da quando eravamo bambini, che abbiamo rifiutato di vivere una vita repressa e capitalista, che non abbiamo scelto la via più facile (o forse la più difficile: la famiglia, la religione, la schiavitù dal lavoro, la casa, e tutto il resto), e abbiamo cercato di fare ciò che ci ha resi felici. Qui così tante persone voltano le spalle alla felicità, proprio come nel mondo occidentale capitalista. Non fraintendere: non siamo affatto orgogliosi di essere l'unica punk band politica in Nepal! Siamo tristi che non ci siano altre persone che hanno scoperto la felicità attraverso l'autogestione, l'auto-organizzazione... le gioie dell'anarchia! Ultimamente ci siamo avvicinati a persone che hanno una mentalità simile alla nostra, e che non sono i punk, bensì i contadini! Ce ne sono tanti nel nostro paese, sulle altrure del Nepal. Non sono persone perfette, ci sono molti aspetti negativi nella loro società, ma hanno un atteggiamento migliore rispetto alla gente della città. Sono più punk dei punk! E le donne sono così forti, ad ispirazione mi danno calci nel culo! E sanno anche come rilassarsi e stare bene. Questo è il mondo dal quale i Rai Ko Ris traggono ispirazione...".

Per quanto riguarda i pochi punx nepalesi, il giudizio di Sareena non é tenero: "In Nepal, c'é qualche punk band. Principalmente molto street-punk o hardcore, nu-metal e cose così. Ci sono sempre due o tre bands che cercano di andare avanti, ma poi si sciolgono o non suonano per mesi o anni. Ci sono molte ragioni per cui nel nostro paese non si riesce a tenere in pedi una band duratura: i componenti si stufano perché in Nepal non c'é una fottutissima scena punk, o perché non girano soldi (ahahah! per la verità questa è la regola universale del punk, occorre abituarsi!), oppure perché iniziano a lavorare. Personalmente, preferirei morire di fame che dire stop alla mia band! Molti ragazzi che suonano, ad un certo punto, lasciano il Nepal per andare all'estero per lavoro o studio. Dobbiamo capire che trasferirsi in occidente é l'unico modo per molti giovani di 'arrivare lontano', e di non doversi più confontare con la famiglia, la tradizione: diventare 'indipendenti', insomma.
Da parte mia, posso dirti che molte di queste motivazioni per sciogliere una band sono solo scuse. Se hai a disposizione soltanto la musica e questa è abbastanza per farti stare bane, anche se sei povero, anche se hai un lavoro, anche se la tua famiglia ti respinge, non c'é ragione di smettere. E' come innamorarsi: niente ti fermerà. Recentemente ci piaceva molto un gruppo chiamato Youth Unite, che veniva dal sud di Kathmandu, anche se erano i soliti ragazzi dai capelli spikey in stile moicano che vivono ancora a casa loro genitori. Hanno registrato sette canzoni veramente buone, nel tipico stile street punk, in nepalese e con testi abbastanza politicizzati. Abbiamo registrato i pezzi a casa nostra, per il loro primo demo. Il cantante (che suona tutti gli strumenti, ma ha deciso di cantare per accontentare tutti gli altri che volevano suonare gli altri strumenti nella band!) mi é sembrato un ragazzo con una mente acuta e molto politica. Il gruppo però si é sciolto perché alla fine nessuno degli altri componenti della band ha condiviso le sue aspirazioni, la sua voglia d'iniziare qualcosa, di essere attivi, di seguire un percorso politico, anziché limitarsi ad avere un taglio di capelli à la Casualties e parlare in modo "punk". Ora ha avviato una band con noi. Vediamo come va...
In questi anni, abbiamo incontrato tanti giovani, ma in Nepal nessuno può davvero sopportare la ribellione per troppo tempo, alla fine tutti tornano alle sicurezze della tradizione. Vi è anche un grande divario generazionale: il ragazzo di cui ti parlavo ha 22 anni, io 37 e Olivier 45. E 'sempre così: nessuno della nostra età ascolta punk politico in Nepal. Molti, davvero molti ragazzi asiatici amano la moda punk e il lato ribelle del punk. Prim'anc
ora della musica. Il punk interessa soprattutto ai ragazzi che vogliono apparire un po' ribelli.
Come donna, tra l'altro, non trovo molto bello quello che ho visto nella scena punk nepalese. Troppo testosterone, troppo machismo. Per poi tornare tutti dalla mamma per cena! La società nepalese é molto patriarcale. Personalmente ho fatto una scelta consapevole, quella di lasciare la casa appena sono stata abbastanza grande da poterlo fare. Il modo nel quale ho vissuto e il modo in cui continuo a vivere é visto come un enorme tabù nella società nepalese. Io ho detto "vaffanculo" e ho cercato di vivere in una comunità dove mi accettano per quello che faccio, non a causa del mio aspetto. Tutte le persone che ho conosciuto in Nepal e che suonano musica punk, vivono ancora a casa con i genitori. Quindi mi sento in relazione con loro fino ad un certo punto, capisci? So che molti di loro si nascondono dietro al fatto che questa é la nostra culutra. Dicono di fronte agli occidentali: "Noi vivamo così, perché questa é la nostra cultura, la nostra tradzione". Peccato che quando sono sul palco cantano di fottere il sistema e la società... Io dico che il punk è uno stile di vita, non é fare il contrario di quello che si dice...
Oltre ai pochi punk, la scena musicale giovanile del Nepal é composta da band metal che si definiscono "l'underground ne
palese" e non sono affatto DIY... Usano la parola underground che per loro significa "avere un suono pesante". Queste bands elemosinano soldi facendosi sponsorizzare da aziende produttrici di birra, che è davvero triste, perché in un luogo come il Nepal non è possibile fare i soldi ed essere un musicista. Non importa quanto mostrano il tuo volto in TV, potrai solo essere un po' "famoso", ma che senso ha in un posto piccolo come il Nepal? Devo essere onesta, queste bands sono tecnicamente valide e molte suonano per amore della musica, non cedo che non le apprezzereste perché non sono per nulla hardcore, politiche o anarchiche. Stiamo parlando solo di una scena che si sbatte per portare avanti la musica metal in un luogo piccolo come Kathmandu. Ma 'underground' per loro é una parola che manca del significato che le attribuiamo noi. Per noi underground ha a che vedere con l'essere messo in prigione per sostenere i prigionieri politici o per proclamarsi contro lo stato...".

[Free music for punx]
RAI KO RIS -
"Nepal Ko Katha Haru" (cd 2010)
[Puj] E' stata una vera fortuna incontrare gli unici due anarcopunx nepalesi, non solo perché é stata l'occasione per farci raccontare le cose che avete appena letto, ma anche perché il loro concerto alla Miroiterie di Parigi é stato davvero magico (antica stregoneria nepalese, credo). Il giro d.i.y. si conferma incredibilmente vitale e pieno di sorprese. Per questo, probabilmente, dopo tanti anni, sia noi che i nostri amici nepalesi, siamo ancora qui a fare i dischi e a gelarci il culo negli squat...
I Rai Ko Ris, dal 2000 ad oggi, hanno prodotto una grande quantità di materiale nei formati più cheap disponibili sul mercato (principalmente cassette e cd-r con copertine fotocopiate). La qualità della registrazione non é mai stata il loro forte, ma l'ultimo album intitolato "Nepal Ko Katha Haru" (Storie dal Nepal), benché registrato "live nella nostra cucina" (come recita il retrocopertina), non é così lo-fi come lascerebbe presagire, e soprattutto include alcune tra le migliori canzoni dei Rai Ko Ris. Qui, tra l'altro, li troviamo in una formazione a tre, con l'aggiunta di un secondo chitarrista. Attenzione! Il sound della band non é banalmente punk/hc, ma ricorda le cose più melodiche dell'anarcopunk inglese degli anni '80 con un appeal moderno, indie-rock. Niente male, direi. Potete scaricare
"Nepal Ko Katha Haru" da qua sotto e giudicare con le vostre sudice orecchie... Up the nepali punx!

>>> Download RAI KO RIS
- Nepal Ko Katha Haru album in .mp3 + art scan + lyrics (.rar - 48. mb.)


Rai Ko Ris live in Hannover (Germany), 17 september 2010.


Rai Ko Ris live in Barcelona (Spain), 8 october 2010.


Rai Ko Ris live in Kathmandu (Nepal)

21/03/10

[Cibo per cani - 4° puntata]
Intervista a Rocco dei FASTI (post-rock da Torino) !
[Sarta] Come i lettori più affezionati sapranno, “Cibo per cani” è il programmino musicale che il Kalashnikov Collective conduce sulle frequenze di Radio Cane. Per la quarta puntata abbiamo invitato Rocco dei Fasti, nostra vecchia conoscenza dai tempi del CSOA Garibaldi nonché (porta)voce dei grandi Seminole con cui suonammo al loro concerto di addio al CSA Murazzi qualche tempo fa. Il pretesto per l’intervista è una breve (ma incisiva) collaborazione del buon Rocco ad una canzone presente sul prossimo e imminente disco del Kalashinikov collective.
La chiacchierata si è svolta a pranzo nel nostro quartier generale, accompagnata - come sentirete - da rumori di piatti, forchette e sciabordii di vino versato nei bicchieri. Rocco è una persona che vive la scena di Torino da diversi anni e ha sempre cose importanti da dire su DIY e autoproduzione: nelle sue parole, le ideologie lasciano sempre il passo all’esperienza personale, al “vissuto”. E, devo dire, dopo quattro puntate abbiamo finalmente trovato qualcuno che è in grado di tenere testa alla nostra (ormai celebre) logorrea...perlomento sulla lunga distanza. Mentre lo stereo urlava le note degli RFT e dei King Crimson (un abbinamento perfetto per tutti i punx) abbiamo tirato fuori storie di concerti sui monti, di gianduiotti giganti e di marketing musicale. Cosa potete volere di più? Nutritevi!

>>> Download Rocco of Fasti inteview - Cibo per cani 4° puntata (.mp3 - 48 mb)

05/12/09

[We talk about... us]
Intervista al KALASHNIKOV COLLECTIVE su... Radio Fango!
[Puj] La puntata di Radio Fango di giovedì 19 novembre '09 ha ospitato un'intervista chilometrica ai K.
Radio Fango dura un'ora e parla di punk/hc, va in onda sulle frequenze di Radio Onda d'Urto, ogni giovedì sera dalle 22 alle 23. Al microfono: da una parte Mr. Andre Brigade, dall'altra, in quest'occasione, io, sarta, dino e il don. Quella sera riversammo sul povero andrea una fiumana di parole che a stento riuscì ad arginare. Malgrado tutto la puntata sforò solo di una ventina di minuti.
Se avete tempo e pazienza di ascoltarlo, il file audio dell'intervista si può scaricare dal blog di andrea, ovvero intombato.blogspot.com, che è molto bello e nel quale troverete anche vecchie puntate della trasmissione con interviste varie (Campus Sterminii, Vulturum...), nonché dischi in downloading a go-go ed interessantissime monografie su artisti punk/metal (ehm... non so bene come definirli, intendo dire quelli del giro che realizzano artwork per i dischi etc...etc...). Evviva!

>>> Download KALASHNIKOV interview for Radio Fango (19/11/09)

14/11/09

[Cibo per cani - 3° puntata]
Intervista ai RUGGINE (hardcore da Milano) !
[Sarta] Per registrare la terza puntata di Cibo per Cani, trasmissione radiofonica sulle frequenze di Radiocane, siamo andati in Villa Vegan a fare una chiacchierata con i Ruggine. Incontriamo dei vecchi amici, assemblati in una nuova formazione fresca fresca di studio di registrazione. Andiamo con ordine: Jerry, già mente degli Anemic Cinema (punk-rock dal 1984) Garga, reduce dagli scomparsi Logica di Morte e arruolato nei Trauma e John, che da Washington D.C. è approdato a svernare in alta brianza (che mazzata….). Mancava Iacopo, in forza anche lui ai Trauma.
E' stata davvero una gaia chiacchierata. Una cosa tra le tante, prendendo spunto dai racconti di John che ha vissuto la scena della east cost americana tra gli anni ’80 e i ’90, mi è sembrata particolarmente interessante: appena nata, la musica hardcore era davvero qualcosa di alieno e scioccante. Nulla era mai stato così veloce e rumoroso per le orecchie. Tuttavia, com'è logico, venticinque anni dopo quella stessa cosa ha perso gran parte della sua carica rivoluzionaria: l’hardcore è diventato un genere musicale che, anziché sovvertire delle regole, ne ha codificato delle proprie. E le segue.
Insomma, è stato sdoganato e oggi non stupisce più un granchè. E allora, forse, occorre reinventarsi, per recuperare quella capacità di stupire che oggi non c'è più.
Di fronte al rischio di omologarsi in genere musicale, molti gruppi, per sentirsi ancora diversi e contro il sistema, si appigliano ad una parolina magica, come se questa da sola giustificasse tutto: attitudine. Che cosa significa, in realtà, questa parola? Beh...ascoltatevi l'intervista!