09/02/11

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Giuseppe Bucalo - DIzionARIO antipsichiatrico. Esplorazioni e viaggi attraverso la follia (1997)
[Pep] Giuseppe Bucalo è fra i più spregiudicati pensatori psichiatrici italiani. Il radicalismo della sua elaborazione teorica, orientata a produrre una piena legittimazione culturale della follia, intesa quale vettore e fattore di una rivoluzione che sommuova ed allarghi gli spazi fisici, relazionali e cognitivi, lo ha condotto a propugnare una rivoluzionaria visione antropologica che sancisce l'impraticabilità di ogni discriminazione tra raziocinio e follia sia nella vita psichica che in quella sociale. Questo volume, che il Kalashnikov Collective Headquarter propone ai propri lettori, costituisce un'eccellente introduzione al pensiero di Bucalo: l'autore, affondando le radici del proprio discorso da un lato nelle sue esperienze di operatore psichiatrico in Sicilia e nel conseguente, quotidiano e conturbante, rapporto con la follia, e, dall'altro nei maestri della critica al sapere e alla prassi psichiatriche (da David Cooper a Thomas Szasz, da Ronald Laing ad Aaron Esterson), fa della psichiatria l'oggetto di una polemica che, accanto ad un versante etico-giuridico ne include uno volto ad invalidarne i fondamenti concettuali. Contestualmente ad una decisiva confutazione della segregazione psichiatrica e della coazione terapica in tutte le sue forme, Bucalo conduce quindi un attacco devastante alla psichiatria quale pseudo-scienza (con particolare riferimento polemico alle ramificazioni del positivismo psichiatrico ottocentesco di Wilhelm Griesinger) e ne mette a fuoco l'artefatto scientifico fondamentale (la “malattia mentale”), tanto pericoloso per i diritti individuali quanto perfettamente funzionale all'assetto sociale: in questo modo Giuseppe Bucalo giunge a formulare la propria sconvolgente posizione, secondo cui la psichiatria è incompatibile con la libertà di pensiero. Quest'ultima non può convivere con un sapere quale quello psichiatrico, il quale squalifica come patologiche opinioni e percezioni che invece meriterebbero un radicale rispetto e dovrebbero costituire legittimi oggetti di libera discussione in una società che inveri il pluralismo e tuteli l' impregiudicabile alterità tra i suoi cittadini: è' anche attraverso il coglimento di questa invisibilizzata ed irrisolta contraddizione delle società liberali che Bucalo prende polemicamente le distanze, pur riconoscendone i meriti storici, dai filoni contigui ma meno radicali della critica alla psichiatria, che legge come meramente riformistici, incamminandosi come pochi altri sul sentiero rischioso e sconvolgente di un continuo, impregiudicato scambio con le tabuizzate ed infernali regioni della pazzia.

>>> Download DIzionARIO Antipsichiatrico [ITA] in .pdf (4,96 mb.)

7 commenti:

  1. Premettendo di non essere uno psichiatra e di non aver nemmeno letto il libro(ho letto semplicemente la presentazione) mi permetto di muovere alcune critiche ad una logica e ad una visione della psichiatria a mio parere erronea e distorta. affermare che la malattia mentale è un "artefatto scientifico" prettamente "funzionale all'assetto sociale" ritengo sia molto riduttivo e sconfinante in una retorica che poteva essere compresa negli anni 70 quando la psichiatria era mero strumento di emarginazione sociale per i soggetti meno amalgamati e reclusione per malati veri o supposti, visti come esseri sub-umani da controllare e a cui era negato qualsiasi diritto fondamentale in nome della ”tranquillità sociale”.
    Ritengo che un significativo passo avanti si sia avuto con l’introduzione della legge Basaglia(1978) che pur dando adito a numerose critiche legittime per la sua imperfezione fu un riconoscimento della dignità dei pazienti immenso. Vennero aboliti i manicomi(precedentemente strutture di contenimento e poco più) e ridata ai malati la libertà; ciò purtroppo significò per numerosi di loro l’abbandono da parte dello stato (non erano state previste strutture sostitutive per legge) e anche da parte delle famiglie(forse,spero, solo impreparate a riaccogliere il malato). In sostituzione vennero introdotte comunità, cooperative di lavoro e strutture di sostegno al malato e alle famiglie che hanno raggiunto buoni livelli oggigiorno: a differenza di quanto sostiene Bucalo, a mio parere travisando forse faziosamente la psichiatria moderna, il malato da oggetto, paria sociale e “strano” è ormai visto come essere umano di pari dignità di un uomo “sano”, afflitto da patologie che spesso gli impediscono una vita normale e a volte incapace di una lucida analisi della realtà e di se stesso e per questo necessitante di aiuto. Per dirlo con un esempio, le dosi di psicofarmaci somministrate ai pazienti sono radicalmente diminuite nell’ottica di non impedire più la coscienza ad essi(precedentemente venivano spesso sedati fino a perdere completamente qualsiasi coscienza di sé, solo burattini senza volontà) ma invece di permettere loro di condurre una vita quasi normale, dignitosa, superando con l’ausilio dei farmaci, situazioni spesso in sé inabilitanti.
    Affermare che gli venga imposta una terapia limitando la loro stessa libertà mi sembra offensivo anche nei confronti di coloro che convivono con la loro patologia e solo grazie a questa povera psichiatria riescono a vivere con dignità. Dubito che molti malati che hanno ritrovato un precario equilibrio negherebbero l’esistenza stessa della malattia come si permette di fare una persona che,sorprendentemente visto che ha avuto modo di entrare in contatto con molte situazioni di quel tipo, la riduce a mero strumento di controllo sociale. Imporreste voi la medicina, per quanto amara e disgustosa, a vostro figlio che la rifiuta? Io credo di sì perché coscienti del meglio duraturo e maggiore che un piccolo sacrificio nel presente può portare, travalichereste probabilmente la sua scelta in quanto nella condizione di giudicare più lucidamente. Il figlio stesso forse vi ringrazierà quando sarà guarito dalla malattia. Stesso paragone mi sembra di poterlo fare con persone non in grado di giudicare con completa cognizione di causa e che trarranno beneficio da terapie benché frutto di una chimica esterna a loro.
    Mi scuso per la mia prolissità ma era un argomento che sentivo molto e su cui ho riflettuto ampiamente. Mi complimento con voi per il vostro lavoro e per gli ideali che portate avanti poiché (quasi) sempre li condivido con entusiasmo. Se ho travisato alcuni aspetti del vostro articolo sarò lieto di ricevere un confronto con voi. Gio

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  2. Al di là del dibattito sulla legittimità epistemologica del concetto di malattia mentale mi sembra opportuno ricordare il fatto che la Costituzione italiana sancisce con forza il principio di autodeterminazione del malato e di indisponibilità del suo corpo e della sua mente da parte dello Stato, nel momento in cui nega la legittimità di qualsiasi terapia coatta.Ritenere che a questo principio si possa derogare(come ci consiglia di fare l'attuale governo,nel quadro della sua battaglia contro l'autodeterminazione in ogni ambito),attraverso una delegittimazione della voce e del protagonismo del malato mentale nella propria terapia,sulla base del pregiudizio di una sua "minorità" da doversi alla malattia stessa, è un errore etico,giuridico e terapeutico.E' anzi proprio la terapia psichiatrica che non può vivere nell'autoritarismo ,nell'inganno e nella violenza dello Stato o della Famiglia (o di entrambi, in sinergica alleanza), ma può esistere come tale solo nella rigorosa applicazione del principio di autodeterminazione individuale,nel massimo ascolto e nella massima dialettica con il paziente, affinchè la pratica terapeutica non si trasformi in una totalitaria e arbitraria violazione della sua personalità. Da libertario ti citerei una provocatoria frase di Henry Thoreau :"Se sapessi che qualcuno sta venendo a casa mia con l'intenzione di farmi del bene scapperei a gambe levate".Ci fa comunque molto piacere cogliere in te una profonda ed intelligente sensibilità verso un problema di cruciale importanza che a livello sociale è non per caso tra i più rimossi ed inevidenti.

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  3. Vorrei provare a dire due righe...

    Sono tirocinante in una ASL, in un Centro di Salute Mentale e preferireio parlare del presente, piuttosto che del passato.
    Credo che nessun dipendente, dove lavoro io (luogo di sicuro non illuminato), usi la psichiatria come mezzo di controllo. Però c'è una concezione della persona che fa ricorso ai servizi del CSM come di un "malato", logica che porta l'operatore ad assumere una posizione di "cura".

    Prendiamo "curare" nella sua accezione più ampia e più antica, vista nel contesto in cui la persona, a causa di un problema, ha limitazioni e sofferenze nella vita relazionale, individuale, sociale, lavorativa, ecc.

    Il problema del "curare" sorge da un'etichetta di "malato", soprattutto di "malato inguaribile", così come concettualizzata nell'Occidente contemporaneo.

    Per due motivi:

    1) l'etichetta di malato attiva una logica di cura che, nell'Occidente, porta quasi immediatamente all'idea di cura farmacologica.

    Cioè: il malato (mentale) è preferibile curarlo primariamente coi farmaci. E' una logica a cui ci abituano i nostri genitori (e poi altri) da bambini, ma non solo perché ci sono dei cospiratori: sì, gli interessi delle industrie farmaceutiche ci sono, ma queste fanno leva sulla pigrizia umana, sul nostro disinteresse a cercare alternative - soprattutto oggi, nell'epoca del web, questa verità del disinteresse è palese, perché se non ci fosse il disinteresse oggi le risorse alternative sono raggiungibili da tutti e potrebbero portare a un tracollo della primarietà della "logica farmaceutica" (parlo di "primarietà" perché negare il farmaco in assoluto è corretto tanto quanto può essere corretto qualunque assolutismo).

    Quindi, sia per l'interesse di qualcuno, sia per il disinteresse nostro, si impone una logica di "utilizzo primario del farmaco" che è sbagliata. Sia nel senso che è sbagliato pensare che solo i farmaci possano curare la persona con problemi psichici. Sia nel senso che è sbagliato l'abuso del farmaco, perché comporta una serie di effetti collaterali pesanti (biochimici ma anche legati all'idea del "sto prendendo uno psicofarmaco" - e questi sono gli effetti peggiori, spesso).

    [continua]

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  4. 2) l'etichetta di malato inguaribile, naturalmente, lascia pensare che quella persona è vittima di una malattia da cui non guarirà mai e che quindi l'unica cosa da fare è rendergli la vita il più facile possibile attraverso i farmaci. Attenzione: questo non è un atteggiamento da controllori sociali. Gli psichiatri, semplicemente, si tramandano queste conoscenze, come l'idea di "malato schizofrenico = inguaribile", che sono l'uovo di Colombo prima di essere schiacciato: non sanno e non pensano che ci sono altre alternative.
    "Non sanno" è un'affermazione del tutto vera: la letteratura mondiale psichiatrica, psicologica, psicoterapeutica e affine dell'ultimo secolo è composta da milioni di libri e da migliaia di correnti (pensate che solo le scuole di pensiero psicoterapeutiche - da non confondere con quelle psichiatriche o psicologiche - sono oltre cinquecento, e continuano a fiorire) tali che ciascuno, atteggiamento comprensibile, ne conosce bene una, ne sa qualcosa di altre, ma la maggior parte le ignora del tutto, non sa proprio che esistono (è come la musica: conosci bene dei gruppi, ne sai qualcosa di altri, ma di altri ancora non sai nemmeno che esistono - e non importa che tu sia una casalinga, un musicista dilettante o un professionista, perché è così per tutti; semmai cambia la quantità della conoscenza). Così, seppure degli psicoterapeuti di un orientamento definito strategico risolvono da quasi mezzo secolo i problemi di schizofrenia quasi sempre senza psicofarmaci, è normale che molti, moltissimi non sappiano nemmeno l'esistenza di tale orientamento.
    In più, gli psichiatri "Non pensano" che curare senza farmaci sia possibile perché una logica, quando si sedimenta, fa fatica ad essere depauperata, e questo vale per tutti noi, anche per uno psichiatra o altri che leggendo le mie righe si trovano in una posizione del tutto contraria alla mia. Attenzione, non dico che la logica che presento è giusta e che un'altra è sbagliata. Dico che allo stesso modo molti psichiatri, seppure gli si presentassero i milioni di casi di persone con i più disparati problemi (attacchi di panico, depressione, schizofrenia, ecc.) risolti senza farmaci, farebbero fatica a crederci, perché cozzerebbero con la loro impostazione, dovuta da anni di letture ed esperienze. Per quanto ci rifiutiamo di pensarlo, questo è un atteggiamento mentale naturale dell'uomo (non dico giusto, sbagliato, funzionale o disfunzionale: semplicemente naturale), che sorge dalla necessità di avere dei punti fermi per ragionare, anziché mettersi in costante discussione su tutto e cambiare sempre idea. Anche qui: non dico che cambiare sempre idea e mettersi in discussione non sia possibile né desiderabile (anzi), ma semplicemente che va contro il più comune processo di pensiero umano - e questo, per chi è interessato alla psiche, significa un maggior sforzo cognitivo; ancora una volta: "maggior sforzo cognitivo" non deve farci drizzare sulla sedia e urlare scandalizzati "Allora solo perché ci si deve sforzare di più bisogna lasciar perdere?!", ma semplicemente ci deve far riflettere che le nostre strategie per cambiare tutto ciò devono essere progettate tenendo conto conto che qualunque organismo vivente tende per natura a seguire con più facilità i processi che richiedono meno sforzo. "Con più facilità", non "automaticamente e unicamente".

    [continua]

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  5. Per chiarire tutto ciò con un altro esempio, esistono delle psicoterapie definite "brevi". La psicoanalisi ortodossa, di norma una psicoterapia "lunga", le critica dicendo che i loro risultati non sono "veri". Cioè, di fronte a persone che in 10-20 sedute hanno risolto tutti i problemi portati, e che dopo due anni non hanno avuto "ricadute", la psicoanalisi ortodossa risponde che, comunque sia, quelle persone non sono veramente guarite. Non è "stupidità" o "cecità": loro non dicono che "bisogna fare lunghe terapie", ma semplicemente dicono che dei risultati "veri" (parola qui sinonimo di "buoni, apprezzabili, duraturi, efficaci, efficenti, effettivi, adatti...") possono essere raggiunti con un metodo (il loro) che, per forza di cose, purtroppo è piuttosto lungo. Allo stesso modo, la psicoterapia breve critica la psicoanalisi ortodossa dicendogli che questa affermazione è sbagliata, che il loro metodo è sbagliato. Chi ha ragione? Entrambi difendono la propria posizione e decidere "Chi ha ragione" è indecidibile.

    Qualcuno ha detto che in realtà basterebbe mettere davanti i risultati: casi risolti in 10 sedute vs casi risolti in 100. Ma il ragionamento non è così lineare. In gergo si parla di "epistemologia", cioè i modi in cui conosciamo la realtà. Per fare un esempio astratto, posso dire a un sordo che non c'è niente di meglio di un concerto il sabato sera, ma lui potrebbe avere qualcosa da ridire in base ai suoi modi di conoscere la realtà.
    Pensare che uno psicoanalista e uno psicoterapeuta, però, non sono sordi o ciechi, ma hanno "solo" dei "modi di pensare" diversi e che, quindi, di fronte ai fatti (10 sedute vs 100) il primo dovrebbe "semplicemente" cambiare il proprio modo di pensare, è un semplicismo - e infatti non funziona, e pensare che non funziona perché "tutti gli psicoanalisti sono cattivi e cospiratori" è un altro semplicismo. E' come dire a una persona depressa che chiudersi in casa non farà che aumentare la sua depressione: non basta per farla uscire; spesso non basta nemmeno riuscire a convincerla una sola volta facendola divertire; provateci. Questo perché la mente, appunto, non è così lineare come vorremmo credere.

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  6. [continua da sopra]

    Il concetto di "logica" e quello di "epistemologia" sono fondamentali, perché si rifanno a "come la persona vede il modo e quali mezzi usa per continuare a vederlo così" e se le sue lenti gli fanno vedere tutto giallo, mettergli davanti un pomodoro non basterà a convincerlo che è rosso.

    Chiudo tornando all'inizio.
    Sono convinco che ci siano interessi a vendere i farmaci e quindi a mantenere un certo atteggiamento nelle persone. Ma sono altrettanto convinto che ciò faccia parte di una logica da cui noi (generalizzo, naturalmente) facciamo spesso poco per uscire. L'uomo psichiatra il più delle volte è solo un uomo che SA (prima ancora di credere) di fare la cosa giusta. Non è cattivo, ha semplicemente una convinzione datagli da anni di esperienze (naturalmente orientate da tale convinzione) e non capisce perché dovrebbe cambiarla con la nostra, di cui non ha alcuna esperienza.

    L'atteggiamento va cambiato nel nostro modo di porsi di fronte a tutto il mondo. Finché buttiamo una cartaccia per terra perché "Sì, inquina, ma tanto è solo un pezzettino di carta" qualunque alternativa farà fatica a entrare. Per chi vuole promuovere informazione alternativa, la strada migliore è quella del non attacco (perché altrimenti incardinerebbe gli psichiatri - e chiunque altro - sulle proprie logiche) e dell'apertura al dialogo (perché nessuno è disposto ad ascoltare sempre senza essere ascoltato mai).

    P.

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  7. Trovo molto acuta la tua osservazione riguardo la contestabilità della valutazione in termini patologizzanti della devianza psichica: questi ultimi implicano l'innescarsi di un processo di reificazione della soggettività del paziente ( e già in questo è coglibile una ben precisa dinamica di controllo, per quanto in genere posta in essere inconsapevolmente),tale da farne il possibile oggetto di un intervento eminentemente psicofarmacologico e non invece il soggetto di una relazione dialogica, eventualmente inclusiva dell'opzione farmacologica.Sull'argomento si ricordino le parole di Thomas Szasz riguardo il trattamento psichiatrico in quanto rito implicitamente atto a produrre una finzione:"L'obiettivo primario dei trattamenti psichiatrici-sia che utilizzino come metodo i farmaci, l'elettricità, la chirurgia[con riferimento alle dismesse pratiche psicochirurgiche]o la contenzione, specialmente se vengono imposti a pazienti non consenzienti- è quello di autenticare il soggetto come "paziente", lo psichiatra come "medico" e l'intervento come una forma di "cura". I costi di questa finzione sono elevati: si richiede infatti il sacrificio del paziente in quanto persona, dello psichiatra in quanto pensatore critico e agente morale e del sistema legale in quanto protettore del cittadino dagli abusi del potere statale".Per quanto riguarda la specifica funzione di controllo esercitata dalla psichiatria essa va letta a più livelli, più o meno espliciti o occultati,che non di rado possono anche sfuggire alla comprensione dello stesso psichiatra come di chi intenda,a vario livello di consapevolezza,criticare teorie e pratiche della psichiatria(é proprio in questo senso che hai ragione a considerare fondamentale la dimensione del dialogo):dall'impostazione securitaria propria della psichiatria a vocazione istituzionale alla stessa concettualizzazione in termini patologici della devianza psichica, tale da mimetizzare, a livello delle diagnosi e dei loro contenuti,svariate stigmatizzazioni implicitamente etiche, e dunque inoggettive,della soggettività del paziente, presentandole nei termini apparentemente oggettivi della diagnosi medica.
    Ci fa molto piacere il tuo ragionatissimo intervento e trovo davvero preziose ed essenziali la raffinata consapevolezza etica e la disincantata intelligenza critica con cui svolgi il tuo lavoro, che infine subisce la stessa invisibilizzazione stigmatizzante di cui sono oggetto i "malati mentali" in particolare e i devianti più in generale: se vuoi contattarci per reciproci suggerimenti bibliografici scrivi pure al Kalashnikov Collective e vedrò io stesso di risponderti.

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