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A MORT L’ARTISTE!
[Puj] [In occasione della designazione di Lille (Francia), quale capitale della cultura europea per l'anno 2004, un collettivo della città diffuse questo pamphlet critico con l'intento di demolire la figura dell'artista nella sua accezione moderna, della quale l'anonimo autore ripercorre con intento demistificatorio la genesi. L'artista appare come una delle tante figure feticcio della cultura borghese e capitalistica. L'analisi dell'autore propone temi critici importanti: l'interdipendenza tra l'arte e il mercato, il ruolo pacificato dell'artista nell'odierna società dei consumi e la natura superomistica della sua rappresentazione. Il testo originale era pubblicato su un flyer che ho raccolto da un infoshop a Grenoble, durante un tour dei Kalashnikov; tradotto e adattato in italiano per il n. 1 della fanzine “Il Sogno di Ulrike”. Yu-uh].
...A MORTE L’ARTISTA!
Lo scopo di questo testo è di annunciare la prossima morte di una delle figure simbolo di questo vecchio mondo capitalistico: l'artista.
Nei sette secoli di operosità umana che sono appena trascorsi ciò che è stata definita storia dell'arte è stata essenzialmente la storia dell'artista. Il senso dell'arte si è confuso e stravolto nell'illusione capitalistica di un mondo immutabile e senza fine, non trovando più significato né interesse se non come riflesso dello spirito dell'artista. Esso è un mito della modernità: personaggio unico e isolato dal resto del mondo, specializzato e votato anima e corpo alla sua arte, si crede immortale. Le rivoluzioni e le innovazioni estetiche di questi ultimi secoli non hanno fatto altro che consolidare il mito dell'artista. Questo mito risiede nell'idea di vocazione che fa di quest'ultimo un essere spirituale idealizzato, collocato nel mondo capitalistico, nel regno della merce e dell'accumulazione illimitata. La vocazione, nel suo significato mondano, determina un rapporto di sottomissione al mondo: una volta riconosciuta, essa condanna l'artista ad essere tale.
La trasformazione dell'artigiano in artista, avviene quando il lavoro artistico diventa progressivamente un dovere di adempimento e uno scopo in sé. Di conseguenza potremo dire senza timore, che l'artista è allo stesso tempo prodotto e agente del mondo capitalistico e liberista. Di sicuro, un suo falso nemico.
Dal XV secolo dal culto dell'arte si cade rapidamente verso il culto dell'artista, da cui segue, nello stesso tempo, il trionfo e la dissoluzione ineluttabile di questa figura moderna, allorché l'artista finirà per credersi egli stesso opera d'arte. Egli, allo stato terminale, si riconosce in questa sola idea e, condannato a vivere nella propria rappresentazione, l'artista basta ormai a se stesso: è se stesso che lo scopo per persegue senza fine, malgrado tutte le apparenze che mette in campo. Lavorando per la conservazione di se stesso partecipa, che lo voglia o no, alla conservazione dello stato di cose esistente.
L'artista non è degno di fiducia, è l'immagine della società consumistica, è un'impostura. La costruzione di questo personaggio pretenzioso, narcisista, ridicolo e, a volte, talentuoso che è l'artista è relativamente recente. Si può senza troppo sbagliare, farla cominciare in Europa alla fine dell'epoca feudale. Attorno al XIII-XIV secolo una categoria d'artigiani, principalmente pittori miniatori, scultori e architetti tende a volersi smarcare e separare dalle altre corporazioni di artigiani, considerando che la loro attività manuale meritasse un'attenzione particolare, superiore. Essi si sono appena arricchiti e si sono fatti un nome. E' nel rinascimento che i potenti accordava a qualcuno di questi artigiani dell'immagine un posto d'eccezione. Questi si vedono conseguentemente invitati al tavolo dei grandi, prendendo gusto per il lusso e si staccano progressivamente dal popolo. La loro ambizione si aumenta allorché il loro prestigio cresce. Così si inizia a parlare dell'individualità artistica. Aspirando a ritagliarsi un posto nella arti liberali, alcuni di questi abili tecnici prendono a definirsi "uomini di pensiero" separandosi dalle preoccupazioni e dagli interessi del mondo basso. Quelli che allora si credono toccati dal genio artistico prendono a considerarsi figure semi-divine: ecco cominciare la vita d'artista.
In europa, fino alla fine del medioevo, gli artigiani più dotati erano impiegati tradizionalmente dalle autorità religiose e politiche. Dal XIV secolo, l'alta borghesia dei ricchi mercanti e banchieri, sempre più influente, per rafforzare la propria immagine in rivalità con i principi, di punto in bianco s'innamora della pittura, determinando così la fioritura di questa forma d'arte, fino ad allora poco apprezzata. La figura dell'artista deve sicuramente molto alla Chiesa Cattolica, dal Rinascimento alla Controriforma. Ed è inoltre debitrice dello Stato monarchico per il prestigioso riconoscimento sociale, con l'istituzione delle Accademie, simboli dell'élitarismo intellettuale. Tuttavia, l'artista nella sua accezione moderna è soprattutto stato plasmato dalla borghesia, suo principale mecenate e cliente.
Che lo voglia o no, l'artista incarna infatti una forma tutta particolare dell’individualismo liberale e borghese. E' nel XIX secolo che tale individualismo raggiunge il suo culmine allorché s'impone l'idea dell'autonomia della dimensione artistica, con il risultato che l'arte diviene un’attività specializzata che perde poco a poco legame con la realtà circostante. L'artista s'illude di essere un individuo libero perché creativo. Ma il nome dell'artista si trasforma in realtà in uno dei tanti "marchi" che popolano il mercato dei consumi.
L'artista, in virtù della sua posizione sociale, è incapace di rimettere in questione il mondo che lo ha prodotto e legittimato: senza il plauso del mondo borghese che ne finanzia l'attività e ne mantiene vivo l'alone di eccezionalità attraverso il battage mediatico, l'artista non può vivere. E' una creature infelice ed ipocrita che deve assecondare lo stato di cose esistente per poter tutelare la propria (presunta) libertà. Può di quando in quando colpire e scandalizzare il borghese, ma entro certi limiti invalicabili, e lo fa in quanto è la stessa società che gli riconosce il diritto e il dovere di essere trasgressivo. In tal senso, l'artista resta il migliore agente della neutralizzazione della critica e del suo riciclaggio estetico.
Il caso del Situazionismo è sintomatico: uno dei limiti di questa “avanguardia” fu di essere rimasta prigioniera del mito dell’artista. Non è tanto il “superamento dell’arte” (concetto comunque rimasto confuso e per questo mai concretizzatosi), ma il superamento dell’artista che bisogna cercare. I componenti dell’Internazionale Sitiuazionista, e Debord in particolare, non hanno mai voluto o saputo rompere con questa mitologia dell’artista. E’ ciò spiega perché oggi molti pensano che l’Internazionale situazionista sia sostanzialmente il nome di un movimento artistico. Si pensi al fatto che il Situazionismo ha avuto influenza tanto negli ambienti di sinistra quanto in quelli del marketing e del cretinismo mondano. E si ricorda, di questo gruppo sovversivo, soltanto il suo stile.
Nella nostra epoca l'artista è diventato un modello di lavoratore e uno stimato cittadino nel momento in cui è riuscito a favorire nuove forme di gestione del capitale, e questo riconoscimento non ha fatto che rafforzare il suo sentimento di superiorità rispetto al popolo, partecipando alla legittimazione del sistema gerarchico e moderno di dominio. E per questo senso di superiorità pretende di essere diverso da tutti gli altri lavoratori: egli infatti produce "oggetti d'arte", frutto di "creatività" e "genio". Ma se l'opera dell'artista finisce poi nel mercato, alla stregua di tutti gli oggetti che la gente compra e consuma, che differenza c'è?
Dirsi artista oggi è un modo alla moda per dichiararsi falsamente libero e migliore degli altri, estraneo alla realtà condivisa dalla massa e contemporaneamente accettare il mondo dei consumi dal quale desidera ardentemente di essere riconosciuto. Oggi la cultura e l'arte sono divenute strumentali alla vendita, alla crescita economico-capitalistica, agli interessi dei ricchi e dei potenti. L'artista è ridotto a un pubblicitario: lo spettacolo megalomane di Lille 2004 ne è oggi una brillante dimostrazione: la cultura si rivela essere un mezzo molto proficuo per vendere una città. Si potrebbe dire che l'artista è un venduto, se quest'insulto non fosse pleonastico.
[Qui sotto il testo scaricabile in formato .pdf con abbinati due vecchi flyer: uno nostro, originariamente accluso all’album “Music is a gun loaded with future” (2005) e l’altro a firma di Vanni dei Franti e più datato (1987); ulteriori riflessioni sulla figura dell’artista e sulla possibilità che si offre a quest’ultimo di liberarsi dalle pastoie dell’odierno, limitato, orizzonte culturale].
>>> Download “A mort l’artiste!” in formato .pdf + bonus (2,80 mb.)
A MORT L’ARTISTE!
[Puj] [In occasione della designazione di Lille (Francia), quale capitale della cultura europea per l'anno 2004, un collettivo della città diffuse questo pamphlet critico con l'intento di demolire la figura dell'artista nella sua accezione moderna, della quale l'anonimo autore ripercorre con intento demistificatorio la genesi. L'artista appare come una delle tante figure feticcio della cultura borghese e capitalistica. L'analisi dell'autore propone temi critici importanti: l'interdipendenza tra l'arte e il mercato, il ruolo pacificato dell'artista nell'odierna società dei consumi e la natura superomistica della sua rappresentazione. Il testo originale era pubblicato su un flyer che ho raccolto da un infoshop a Grenoble, durante un tour dei Kalashnikov; tradotto e adattato in italiano per il n. 1 della fanzine “Il Sogno di Ulrike”. Yu-uh].
...A MORTE L’ARTISTA!
Lo scopo di questo testo è di annunciare la prossima morte di una delle figure simbolo di questo vecchio mondo capitalistico: l'artista.
Nei sette secoli di operosità umana che sono appena trascorsi ciò che è stata definita storia dell'arte è stata essenzialmente la storia dell'artista. Il senso dell'arte si è confuso e stravolto nell'illusione capitalistica di un mondo immutabile e senza fine, non trovando più significato né interesse se non come riflesso dello spirito dell'artista. Esso è un mito della modernità: personaggio unico e isolato dal resto del mondo, specializzato e votato anima e corpo alla sua arte, si crede immortale. Le rivoluzioni e le innovazioni estetiche di questi ultimi secoli non hanno fatto altro che consolidare il mito dell'artista. Questo mito risiede nell'idea di vocazione che fa di quest'ultimo un essere spirituale idealizzato, collocato nel mondo capitalistico, nel regno della merce e dell'accumulazione illimitata. La vocazione, nel suo significato mondano, determina un rapporto di sottomissione al mondo: una volta riconosciuta, essa condanna l'artista ad essere tale.
La trasformazione dell'artigiano in artista, avviene quando il lavoro artistico diventa progressivamente un dovere di adempimento e uno scopo in sé. Di conseguenza potremo dire senza timore, che l'artista è allo stesso tempo prodotto e agente del mondo capitalistico e liberista. Di sicuro, un suo falso nemico.
Dal XV secolo dal culto dell'arte si cade rapidamente verso il culto dell'artista, da cui segue, nello stesso tempo, il trionfo e la dissoluzione ineluttabile di questa figura moderna, allorché l'artista finirà per credersi egli stesso opera d'arte. Egli, allo stato terminale, si riconosce in questa sola idea e, condannato a vivere nella propria rappresentazione, l'artista basta ormai a se stesso: è se stesso che lo scopo per persegue senza fine, malgrado tutte le apparenze che mette in campo. Lavorando per la conservazione di se stesso partecipa, che lo voglia o no, alla conservazione dello stato di cose esistente.
L'artista non è degno di fiducia, è l'immagine della società consumistica, è un'impostura. La costruzione di questo personaggio pretenzioso, narcisista, ridicolo e, a volte, talentuoso che è l'artista è relativamente recente. Si può senza troppo sbagliare, farla cominciare in Europa alla fine dell'epoca feudale. Attorno al XIII-XIV secolo una categoria d'artigiani, principalmente pittori miniatori, scultori e architetti tende a volersi smarcare e separare dalle altre corporazioni di artigiani, considerando che la loro attività manuale meritasse un'attenzione particolare, superiore. Essi si sono appena arricchiti e si sono fatti un nome. E' nel rinascimento che i potenti accordava a qualcuno di questi artigiani dell'immagine un posto d'eccezione. Questi si vedono conseguentemente invitati al tavolo dei grandi, prendendo gusto per il lusso e si staccano progressivamente dal popolo. La loro ambizione si aumenta allorché il loro prestigio cresce. Così si inizia a parlare dell'individualità artistica. Aspirando a ritagliarsi un posto nella arti liberali, alcuni di questi abili tecnici prendono a definirsi "uomini di pensiero" separandosi dalle preoccupazioni e dagli interessi del mondo basso. Quelli che allora si credono toccati dal genio artistico prendono a considerarsi figure semi-divine: ecco cominciare la vita d'artista.
In europa, fino alla fine del medioevo, gli artigiani più dotati erano impiegati tradizionalmente dalle autorità religiose e politiche. Dal XIV secolo, l'alta borghesia dei ricchi mercanti e banchieri, sempre più influente, per rafforzare la propria immagine in rivalità con i principi, di punto in bianco s'innamora della pittura, determinando così la fioritura di questa forma d'arte, fino ad allora poco apprezzata. La figura dell'artista deve sicuramente molto alla Chiesa Cattolica, dal Rinascimento alla Controriforma. Ed è inoltre debitrice dello Stato monarchico per il prestigioso riconoscimento sociale, con l'istituzione delle Accademie, simboli dell'élitarismo intellettuale. Tuttavia, l'artista nella sua accezione moderna è soprattutto stato plasmato dalla borghesia, suo principale mecenate e cliente.
Che lo voglia o no, l'artista incarna infatti una forma tutta particolare dell’individualismo liberale e borghese. E' nel XIX secolo che tale individualismo raggiunge il suo culmine allorché s'impone l'idea dell'autonomia della dimensione artistica, con il risultato che l'arte diviene un’attività specializzata che perde poco a poco legame con la realtà circostante. L'artista s'illude di essere un individuo libero perché creativo. Ma il nome dell'artista si trasforma in realtà in uno dei tanti "marchi" che popolano il mercato dei consumi.
L'artista, in virtù della sua posizione sociale, è incapace di rimettere in questione il mondo che lo ha prodotto e legittimato: senza il plauso del mondo borghese che ne finanzia l'attività e ne mantiene vivo l'alone di eccezionalità attraverso il battage mediatico, l'artista non può vivere. E' una creature infelice ed ipocrita che deve assecondare lo stato di cose esistente per poter tutelare la propria (presunta) libertà. Può di quando in quando colpire e scandalizzare il borghese, ma entro certi limiti invalicabili, e lo fa in quanto è la stessa società che gli riconosce il diritto e il dovere di essere trasgressivo. In tal senso, l'artista resta il migliore agente della neutralizzazione della critica e del suo riciclaggio estetico.
Il caso del Situazionismo è sintomatico: uno dei limiti di questa “avanguardia” fu di essere rimasta prigioniera del mito dell’artista. Non è tanto il “superamento dell’arte” (concetto comunque rimasto confuso e per questo mai concretizzatosi), ma il superamento dell’artista che bisogna cercare. I componenti dell’Internazionale Sitiuazionista, e Debord in particolare, non hanno mai voluto o saputo rompere con questa mitologia dell’artista. E’ ciò spiega perché oggi molti pensano che l’Internazionale situazionista sia sostanzialmente il nome di un movimento artistico. Si pensi al fatto che il Situazionismo ha avuto influenza tanto negli ambienti di sinistra quanto in quelli del marketing e del cretinismo mondano. E si ricorda, di questo gruppo sovversivo, soltanto il suo stile.
Nella nostra epoca l'artista è diventato un modello di lavoratore e uno stimato cittadino nel momento in cui è riuscito a favorire nuove forme di gestione del capitale, e questo riconoscimento non ha fatto che rafforzare il suo sentimento di superiorità rispetto al popolo, partecipando alla legittimazione del sistema gerarchico e moderno di dominio. E per questo senso di superiorità pretende di essere diverso da tutti gli altri lavoratori: egli infatti produce "oggetti d'arte", frutto di "creatività" e "genio". Ma se l'opera dell'artista finisce poi nel mercato, alla stregua di tutti gli oggetti che la gente compra e consuma, che differenza c'è?
Dirsi artista oggi è un modo alla moda per dichiararsi falsamente libero e migliore degli altri, estraneo alla realtà condivisa dalla massa e contemporaneamente accettare il mondo dei consumi dal quale desidera ardentemente di essere riconosciuto. Oggi la cultura e l'arte sono divenute strumentali alla vendita, alla crescita economico-capitalistica, agli interessi dei ricchi e dei potenti. L'artista è ridotto a un pubblicitario: lo spettacolo megalomane di Lille 2004 ne è oggi una brillante dimostrazione: la cultura si rivela essere un mezzo molto proficuo per vendere una città. Si potrebbe dire che l'artista è un venduto, se quest'insulto non fosse pleonastico.
[Qui sotto il testo scaricabile in formato .pdf con abbinati due vecchi flyer: uno nostro, originariamente accluso all’album “Music is a gun loaded with future” (2005) e l’altro a firma di Vanni dei Franti e più datato (1987); ulteriori riflessioni sulla figura dell’artista e sulla possibilità che si offre a quest’ultimo di liberarsi dalle pastoie dell’odierno, limitato, orizzonte culturale].
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