30/08/15

[In questa quinta puntata del nostro tour-report accadono fatti inesplicabili: un aereo vola da una parte all'altra del mondo in poco meno di un'ora, un furgone viaggia ininterrottamente per due giorni e due notti dal Polo Nord alla capitale, il marxismo-leninismo è redivivo tra i giovani russi e a Mosca è attiva una colonna punk delle Brigate Rosse... Ma non preoccupatevi: tutto alla fine troverà una spiegazione. Buona lettura!]

Capitolo 5:
Sabato 30 maggio, da Yakutsk a Mosca, e concerto. 
 
Un russo con i capelli rossi, raccolti in sparuti dreadlocks, saluta un gruppo di italiani vestiti di nero davanti all'aeroporto di Murmansk. Sale sul furgone ed accende una sigaretta, perdendosi per qualche secondo nel mistico panorama polare, così irreale nelle prime ore del mattino. Poi torna alla realtà, mette la prima e parte. Due giorni e 1.900 chilomteri dopo lo stesso russo è davanti ad un altro aeroporto, quello di Mosca. Ha dormito poco e fumato molto. “Ciao kakao, Denis!”. Nove italiani mezzi rincoglioniti fanno irruzione sul suo furgone e collassano sui sedili...
Partiti alle sei del mattino da Yakutsk, abbiato sorvolato per sette ore l'intera estensione della Federazione Russa e adesso a Mosca sono le... sette del mattino. Assurdità dei fusi orari sovietici! Dopo una dormita interlocutoria (non sappiamo bene se e per quanto dobbiamo dormire), usciamo a fare un giro. Mosca nella sua grigia, austera maestà ci è familiare ormai: abbiamo forse finalmente fatto amicizia con questa inospitale megalopoli?
Prendiamo un caffè d'asporto e sostiamo su Zemlyanoy Val osservando la gente che passa. Per le strade di Mosca tutto sembra proteso verso il futuro: aleggia un'atmosfera frizzante, una certa aria di novità. In pochi anni qui è cambiato molto. Forse tutto. Pare che Mosca stia perdendo rapidamente quella scorza ruvida di un tempo, e con essa, forse, anche parte del suo fascino...

 
I K. live in Mosca al ristorante Вермел
Suoniamo in un ristorante del centro (i concerti nei ristoranti qui sono un grande classico). Per arrivarci attraversiamo una zona piuttosto borghese della città: un'occasione per saggiare come tutto ciò che riguarda gli affari e il lusso sia penosamente uguale ad ogni angolo del mondo: le solite boutique dei soliti stilisti, le solite insegne delle solite multinazionali, la solita gente elegante ed esibizionista che profuma di arrivismo e di loschi maneggi. Siamo molto lontani dai sobborghi russi degli adolescenti in tuta che scolano le lattine di Jaguar sulle panchine.
Mentre sostiamo di fronte al ristorante veniamo riconosciuti da un'orda di punk che vuole condividere con noi alcuni temibili incroci alcolici a base di vodka. Malgrado la simpatica ospitalità dei locali, la serata langue e l'affluenza non è un granché: questa sera ci sono altri quattro concerti punk sparsi per Mosca, e di band decisamente più note della nostra. La tendenza alla ridondanza tipica del turbo-capitalismo occidentale ha preso piede anche qui, maledizione.
Prima di noi si esibiscono gli Skulls, Angels and Sluts, una buona band di h.c. melodico anni '90 (che però assomiglia troppo ai Lag Wagon... ehi, siamo pur sempre in Russia, ragazzi!) e i Панк-фракции Красных бригад. Questi ultimi si rivelano una gradita sorpresa. Sembrano usciti da una capsula spazio temporale: suonano e appaiono, in tutto e per tutto, come una vecchia band di rock sovietico. Posa? Devozione sincera? Fortuita coincidenza? Панк-фракции Красных бригад  signica “La Divisione Punk delle Brigate Rosse”. Il riferimento, appuriamo, è proprio alle nostre Brigate Rosse: lo testimonia lo striscione affisso dietro al palco, che è una rivisitazion del famigerato simbolo del gruppo terroristico. Nessuno in Italia avrebbe il coraggio di utilizzare questo nome e questa iconografia per la propria punk band: una roba troppo impegnativa, troppo pericolosa, troppo greve. Inopportuna, insomma. Forse un po' come il nome "Kalashnikov" per un russo? Comunque sia, Vova, il chitarrista/cantante della band è un personaggio unico: anche lui non ha i denti davanti, come tanti altri suoi colleghi, e suona come pervaso da un demone, in bilico tra cialtroneria e profonda ispirazione. O molto più probabilmente è solo ubriaco marcio. Ad ogni modo, ci colpisce perchè non è il solito teenager russo che fa di tutto per sembrare occidentale.
 

Vova
Detto questo, c'è qualcosa di strano ed incomprensibile ai nostri occhi in questo recupero, qui, nell'ex-Unione Sovietica, dell'iconografia comunista; in quest'uso spregiudicato di simboli così compromessi, come la falce e il martello, da parte di questi giovani musicisti dall'aria sognante, dall'approccio un po' naive e situazionista, dalle pose decadenti, che sempre più spesso incontriamo ultimamente da queste parti. Chiediamo al nostro vecchio amico Maksim che cosa significhi tutto questo. “Mmmh... è solo romanticismo!” ci risponde. Chiediamo allora chiarimenti al romantico Vova in persona, che scende nei dettagli... "Dunque... la band si è formata nel deumila e dodici. L'idea per il nome è nata dal fatto che un mio amico mi ha detto che in Italia le Brigate Rosse avevano ripreso l'attività negli utlimi anni. In quel periodo lavoravo in fabbrica ed ero talmente povero che a volte non avevo i soldi per mangiare. Mangiavo le mele sugli alberi alle fermate dell'autobus. Ero quindi molto arrabbiato per tutto, per la politica del governo e per il modo con il quale la ricchezza viene distribuita tra la popolazione. Questa era, ed è, la vita nella capitale del nostro paese, dove puoi vedere ovunque gente stanca, povera e senza un tetto sotto il quale vivere, e sull'altro lato della strada ricchi in auto di lusso e un sacco di poliziotti. In quel periodo ho scritto una canzone che parlava di Berlusconi e di come avrebbe potuto fare la fine di Aldo Moro, e del fatto che non tifavo più il Milan come ai tempi della scuola; ho visto Berlusconi sul giornale stringere la mano di Putin: sembravano due idioti. Quella canzone l'ho intitolata “La canzone delle Brigate Rosse”. Di lì a poco un artista di Mosca di nome Anton mi ha chiesto se volevo mettere insieme una band con lui e l'abbiamo chiamata “Brigate rosse”. Poi ho pensato che fosse un nome troppo banale così abbiamo aggiunto “La divisione punk delle Brigate Rosse”. Qui in giro, la situazione a livello culturale e musicale non era un granché, c'era un sacco di merda nelle teste delle persone di ogni classe sociale, quindi era il momento adatto per uscirsene con una band con questo nome. Volevo davvero distruggere tutto quello che mi stava intorno, ma... niente sangue! Utilizzando solo chitarre e microfoni!...”.

La Colonna Punk delle Brigate Rosse
Chiediamo a Vova il significato dell'uso che la band fa della simbologia comunista e, più in generale, dei suoi legami con il periodo sovietico: “Che cosa posso dire dell'era sovietica? Ci sono nato. E comunque ancora oggi non riesco a capire che cosa è la Russia... Ad ogni modo, penso che ci siano state tante “Unioni sovietiche” tra il 1918 e il 1991...  e che nel periodo tra il 1905 e il 1924 si respirasse davvero un'aria nuova e la gente vivesse una grande spinta verso il futuro. Ci volevano energie nuove per distruggere il regime degli Zar, non si poteva aspettare più a lungo. Credo che il primo periodo dell'Urss sia stato davvero grande. Poi, con la morte di Lenin, sia iniziata una parabola discendente. Posso tutt'ora constatare che gli ideali comunisti sono stati traditi in tutte le epoche successive a quella: quando parlo con persone anziane, anche con i miei parenti, vedo che non sanno nulla della teoria del Commusimo, non capiscono il senso della lotta di classe, perché l'elite politica dell'URSS, mentre se la spassava in una marea di privilegi, li ha fottuti con una bugia dietro l'altra. Ed ora noi, ortodossi marxisti-leninisti, siamo costretti a difendere le nostre idee di fronte ai detrattori del comunismo, per colpa di un branco di maiali che dalla rivoluzione del 1917 ha tratto soltanto il proprio profitto personale”.
Vova sarà pure un romantico, ma sembra avere le idee chiare... malgrado quell'aria svampita e stralunata ha i piedi ben saldi al terreno! Comunque sia, l'ultimo disco dalla Панк-фракции Красных бригад è una manna dal cielo per noi amanti del vecchio punk-rock sovietico! 


http://pfkb77.bandcamp.com/album/2015

Quando attacchiamo a suonare, la sala, da deserta, si popola inaspettatamente. In queste situaizoni interlocutorie cerchiamo di fare del nostro meglio, per inchiodare davanti al palco tutto il risicato pubblico presente! 

 
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Cazzo?
Finiamo la serata a casa del disegnatore Pepka Mulinov assieme a Denis, Anya, Nadia ed altri amici e amiche. Attraversiamo la notte moscovita per arrivarci, che è fatta di vialoni infiniti e tutti uguali, interminabili. Pepka abita in un palazzone sovietico, uno di quei grigi menhir che disegnano l'inconfondibile skyline delle città russe. Ci accomodiamo dove riusciamo in cucina, una stanzetta congestionata da libri, quaderni d'appunti, stoviglie impilate ed oggetti dei più disparati, come ad esempio una vecchia "lavagna magica" sulla quale Denis, con enorme perizia, scrive cazzo. Pepka ci offre una scodella di Okroška, una zuppa fredda di cetrioli, ravanelli e aneto (una specie di gazpacho alla russa) ed apre alcune bottiglie di tragico vino. A tal proposito ricordiamo un episodio di quando incontrammo Pepka a Milano, l'estate scorsa: ci trovavamo in uno squallido bar cinese e lui ordinò una bottiglia di vino, pensando che in Italia il vino fosse buono ovunque. Gli arrivò del vinaccio velenoso fatto con le polverine in una bottiglia con il tappo a vite. Lui che aveva sentito dire che il vino buono ha il tappo di sughero infilò sicuro il cavatappi dentro il tappo metallico, girando e tirando con fare da sommelier... 
L'atmosfera delle cucine sovietiche ha qualcosa di speciale: la kuchnja era, ai tempi dell'Unione Sovietica, la parte della kommunalka in cui la gente si incontrava, parlava, litigava, dove si decidevano tutte le cose e si facevano apertamente tutti quei discorsi sulla politica e sui potenti che non conveniva fare altrove...


Nella cucina di Pepka


Manca sale nell'orkoska, presidente?
Anche qui, nella cucina di Pepka, ci pare di respirare quell'aria un po' bohemienne e clandestina di un tempo. O forse è solo un effetto collaterale del vino? A proposito: notando lo sbilanciamento tra cibo e alcool (catastroficamente a netto favore del secondo) cerchiamo di correre ai ripari, dovendo salire domattina presto su un aereo per Kiev. 
Mentre ci congediamo, notiamo un libro appoggiato ad una catasta di altri libri di fianco all'ingresso. Si tratta di un volume illustrato sull'Unione Sovietica degli anni '80: una retrospettiva fotografica sulle fase discendente dell'era Breznev e i fatidici anni della Perestroijka. Lo sfogliamo con curiosità. Gli anni '80 furono decisivi per il destino dei russi: anni di agonia ammantati di illusioni e speranze. E' triste pensare che chi ha creduto in quelle speranze e in quelle illusioni abbia definitivamente perso la partita (e non abbia ricevuto nemmeno un premio di consolazione): quanti sacrifici inutili, quante vite buttate in nome di un ideale, spazzato via dalla sera alla mattina... “Se vi piace tenetevelo. Io l'ho trovato nella spazzatura qua sotto!” dice Pepka. Beh, simbolico: un libro trovato tra i rifiuti che racconta un'epoca che è finita dritta nella pattumiera della storia! Dopo venticinque anni dalla caduta del Comunismo di quella Mosca che vediamo nelle foto del libro, di sicuro, restano le case come quella di Pepka, quelle torri livide e indifferenti che vegliano sul popolo russo ad ogni latitudine e longitudine della Federazione. Ah! Anche lo scricchiolio sinistro dell'ascensore del condominio di Pepka, che ci porta gemendo al piano terra, proviene di certo da quell'epoca!   

Moscow mist
 
Postilla: il Club degli Scacchisti Punk di Mosca.
In Unione Sovietica, ed ancora oggi in Russia, il gioco degli scacchi è uno "sport" nazionale. Non viene consideato soltanto un passatempo, ma un'attività ad alta valenza educativa. Tant'è che alle pareti dell'aula della scuola di Yakutsk nella quale abbiamo dormito, erano appesi uno di fianco all'altro i ritratti di tutti i grandi campioni di scacchi del secolo scorso, mentre all'ingresso dell'istituto si trovava una scacchiera gigante. 
La prima volta che venimmo in tour in Russia, l'amico Sharapow ci portò in un bar di San Pietroburgo e, tra una birra alla banana e l'altra, ci sfidò a scacchi, naturalmente sconfiggendoci in modo patetico. D'altronde, in Russia tutti e tutte sanno giocare a scacchi: Lenin era grande appassionato di questo gioco e ne volle fare un sport di massa per tutte le età e per tutte le classi sociali. Negli anni venti fu varato un piano quinquennale per la diffusione del gioco degli scacchi e fu commissionato al regista Vsevolod Pudovkin un film-doscumentario intitolato La febbre degli scacchi, che all'epoca ebbe una certa popolarità. Il funzionario Nikolai Krylenko, a capo della sezione scacchistica del Consiglio supremo per l'educazione fisica dell´Urss, si applicò affinché il numero di giocatori di scacchi nel paese crescesse esponenzialmnente. Dal punto di vista ideologico infatti, gli scacchi non avevano connotazione di classe e offrivano un passatempo sano al cittadino sovietico che, nel tempo libero, era perlopiù impegnato a «fabbricare liquori, berli e a litigare con altri ubriachi».
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Dopo la seconda guerra mondiale, il gioco degli scacchi, già metafora bellica, divenne uno dei campi di battaglia sullo sfondo dei quali si combattè la Guerra Fredda: nel 1945 una partita Usa-Urss giocata via radio, premiò i sovietici e ne sancì la supremazia fino allo storico match nel 1972 di Reykjavik tra Boris Spassky e Bobby Fischer, vinto da quest'ultimo.

Mi scappa una partita in un'aiuola!
Il nostro Denis, durante gli interminabili viaggi in furgone, ci ha raccontato di una sua simpatica iniziativa legata agli scacchi: il club degli scacchisti punk di Mosca!
Tempo fa, quando facevo il custode di una sala prove, io e un'amica ci trovavamo lì e giocavamo regolarmente a scacchi. Poi la sala prove ha chiuso e così non abbiamo avuto più un'occasione per giocare. E' allora che abbiamo fondato il “Club degli Scacchisti Punk di Mosca”... In quel periodo, alcuni amici di Kiev mi hanno invitato a trascorrere del tempo da loro per gustare del buon cibo ucraino e, saputo dell'esistenza del club, per giocare e dimostrare che l'unico modo nel quale i punk russi possono combattere contro i punk ucraini è... a scacchi! Il club ha avuto fin da subito un inaspettato successo: da Minsk, da Grodno, da San Pietroburgo mi hanno scritto amici e conoscenti per aderire al club, ma io ho risposto: ehi, fate un punk-club di scacchi nelle vostre città e venite a sfidarci! Così è nata quest'idea di incontrarsi tra punk provenienti da varie città e passare del tempo insieme davanti ad una scacchiera, bevendo qualche birra, raccontandoci storie e ascoltando buona musica.
Onestamente i membri del nostro punk-club sanno giocare piuttosto male a scacchi, ma non vedo nessun problema a riguardo: vale lo stesso discorso che si fa per la musica punk; la passione è più importante delle competenze e delle capacità. Un sacco di pratica può dare competenze, ma dubito possa dare la passione. Quello degli scacchi è gioco vecchio e bellissimo: il punk non è solo avere uno stile bizzarro e fare casino ai concerti, è anche idee, intelligenza, creatività... quindi perché non si può immaginare una declinazione punk del gioco degli scacchi?   
Prima di ogni match del club, annunciamo gli eventi con slogan assurdi e divertenti tipo “La politica non ci interessa, noi vogliamo soltanto uccidere il re!” oppure “gli atleti saranno squalificati per una percentuale di alcol nel sangue inferiore a quella permessa”. Mi è capitato di guidare per gruppi stranieri (come gli Active Minds, dall'Inghilterra) che amano il gioco degli scacchi e un giorno mi piacerebbe organizzare anche incontri internazionali. D'altronde è facile mettere in piedi un match di scacchi punk: tutto ciò che serve è un tavolo e almeno due giocatori punk! Più facile che organizzare un concerto o suonare in una band!”.

Il club degli scacchisti punk di Mosca in azione

14/08/15

[Benvenuti alla quarta puntata del reportage sul nostro tour nell'ex-Urss! Con uno schiocco di dita, ci teletrasportiamo dall'altra parte del mondo, nelle lande desolate della Siberia orientale: in questa terra inaccessibile e inospitale chiamata Sacha-Yakuzia scopriamo il segreto della vera ospitalità e il significato primigenio della parola "punk". I pericoli comunque non mancheranno: dovremo orientarci nei labirinti di ghiaccio scavati nel permafrost, affrontare zombi-mammuth in avanzato stato di decomposizione, presidi nottambuli, nani seda-risse e scolare minacciose bottiglie di champagne sovietico. Ma alla fine, come sempre, avremo la meglio su tutte le avversità!]

Capitolo 4:
Mercoledì 27 maggio, da Murmansk a Yakutsk. 
Giovedì 28 maggio: cazzeggio in Sacha-Yakutia. Venerdì 29 maggio: concerto a Yakutsk.

Oggi ci attendono circa diecimila chilometri da percorrere. Fortunatamente in aereo. E’ la quarta tappa del nostro tour, la causa per la quale molti dei nostri conoscenti e amici hanno dubitato della nostra lucidità mentale. Perché Yakutsk? Cittadina collocata nell'estremo oriente russo, in una delle regioni meno ospitali e più remote della Siberia, la Sacha-Yakutia, è celebre per essere il polo del freddo del mondo abitato: a Yakutsk il termometro, in inverno, scende al di sotto dei -50°! Il motivo per cui abbiamo scelto di fissarla come tappa è semplice: che ci crediate o no, in Sacha-Yakuzia c'è una florida scena punk e, giunta notizia del nostro imminente tour in Russia, qualcuno da là si è dimostrato entusiasta e disponibile ad organizzarci una data. Noi, che non amiamo le soluzioni  scontate e rassicuranti, abbiamo accettato senza pensarci due volte. Avremmo dovuto?
Ad ogni modo, è per questo motivo che ci troviamo ora stipati in questo maledetto volo notturno dell'Aeroflot che sorvolerà l’intera Federazione Russa, da Murmansk a Yakutsk. Prima di salire sull’aereo, appurata la durata del viaggio (più o meno quello tra Milano e Tokyo), ci eravamo messi il cuore in pace, pronti a spararci una dormita colossale sui comodi sedili del volo intercontinentale. E invece no: una volta in cabina abbiamo amaramente scoperto trattarsi di patetico velivolo low-budget privo di ogni comodità e confort: ci attendono ore di viaggio incastrati in file da tre posti, senza nemmeno alcolici per poterci anestetizzare! Sulle tratte interne dell'Aeroflot si torna ai tempi dell'Unione Sovietica: mentre il volo Miano-Mosca era comodo e spazioso, le hostess offrivano vino ai passeggeri, qui, per il fatto che turisti non ce ne sono, ma soltanto poveri russi che vanno a trovare i parenti dall'altra parte del paese… si viaggia come su un carro bestiame!
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Il volo si rivela presto un'esperienza metafisica. Vuoi per il cibo psichedelico dell’Aeroflot, vuoi per la postura costrittiva da tortura medievale, vuoi per il clima tropicale creatosi, vuoi per il continuo, vorticoso passare dal sonno alla veglia... dopo alcune ore di viaggio veniamo assaliti da fantasie paranoiche e miraggi di natura monomaniacale. Ci convinciamo ad esempio che i passeggeri attorno a noi hanno tutti grosse orecchie gonfie e deformi. In un picco di delirio ossessivo-compulsivo, trovando insostenibile quest’allucinazione collettiva, chiediamo ai diretti interessati perché le loro orecchie siano così grosse e brutte, temendo che nel frattempo anche le nostre siano diventate così. Scopriamo così di essere in mezzo ad una squadra giovanile di lotta greco-romana di San Pietroburgo. Quelle orecchie non sono un’allucinazione: scopriamo che molti lottatori le hanno, a causa dei colpi e delle prese che subiscono ai lati della testa! Comunque sia, paiono anch'essi incuriositi da noi otto italiani vestititi di nero che viaggiamo verso la Sacha-Yakutia. Il dialogo verte subito sul calcio, ovviamente: secondo loro Sarta è uguale a Guardiola, l'allenatore del Barcellona. Che allenatore di quella squadra non lo è più da circa tre anni però: forse è un problema di fuso orario o di latenza nella ricezione della parabola. Quando il discorso vira verso tematiche ancora più virili, tipo che cosa pensiamo delle russian girls, fingiamo di avere qualcosa di urgente da fare, o semplicemente di essere trasparenti.
Giunti all'aeroporto di Yakustsk, alle sei del mattino, non sappiamo nemmeno più bene come ci chiamiamo. Strisciamo le suole verso l'uscita, e lì dietro una vetrata avvistiamo due giovani con gli occhi a mandorla: uno sorride e saluta con gesti vorticosi, l'altro filma con una videocamera l'arrivo dei passeggeri. Una delegazione di giornalisti della stampa locale che accoglie la squadra di lotta greco-romana, pensiamo. E invece no, sono lì per noi. Sono Dima e Kesha: quest'utlimo, appassionato di fotografia, filmerà ogni minuto dei nostri futuri tre giorni di permanenza in città (vorrà forse produrre un kolossal locale da far concorrenza ad Heimat?). I due ci accompagnano nel desolato parcheggio dell’aereoporto di Yakutsk, dove ci attende un pulmino scassato. Saliamo e partiamo. Ma verso dove? Dal finestrino osserviamo la città intorno, percorrendone le ampie strade semideserte...

A Yakutsk tutto ha un aspetto un po' polveroso e trasandato, ma è normale considerando che ci troviamo in una delle località più remote del mondo, dove le condizioni climatiche sono estreme: il gelo stacca l’intonaco dalle case e fracassa i serramenti delle finestre; il disgelo lascia dietro di sé coltri di fango e strade dissestate. Yakutsk – come dicevamo - è nota per essere il luogo abitato più freddo della terra, ma, fortunatamente, ora siamo in piena primavera: la temperatura è mite, e non c’è traccia della neve che avvolge questa città per nove mesi all’anno. In estate la temperatura salirà ad oltre trenta gradi, con un’escursione termica da gennaio a luglio di circa 80 gradi centigradi!

Come altre città siberiane, Yakutsk è caratterizzata da caseggiati tetri e spartani molto distanziati l’uno dall’altro, ed è solcata dalle tubature a vista, che corrono da abitazione ad abitazione disegnando strane traiettorie in corrispondenza di ostacoli come strade o negozi: non è possibile interrarle, perché sotto la superfice della terra c’è il ghiaccio eterno, il permafrost. 


Per questo le case e i palazzi sono costruite su palafitte: se così non fosse i continui sommovimenti del permafrost le farebbero crollare! Il Permafrost non è solo terra ghiacciata che crea grossi problemi alla stabilità degli edifici degli abitanti della Sacha-Yakutia, ma un mostro cangiante che minaccia l’umanità intera, perché rilascia grandi quantità di metano nell’atmosfera, tali da alterare in modo catastrofico il clima della terra. E più gas libera, più aumenta il riscaldamento globale e di conseguenza lo scongelamento stesso del permafrost. Insomma, un gran casino...
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La vie en rose
Notiamo che la maggior parte degli esercizi commerciali sono autorimesse e officine. In effetti, con il clima e le strade che ci sono qui, le auto hanno continua necessità di manutenzione; ci accorgiamo poi che molte auto non hanno il paraurti anteriore: probabilmente perché, quando le strade sono piene di neve, tutto quello che è rasente al terreno dà solo noia!

Lo Yakutskaya Gorodskaya Natsionalnaya Gimnaziya
Il taxi si ferma davanti ad un edificio colorato, di recente costruzione, che ha tutto l’aspetto di una scuola. E lo è, in effetti. Non solo: sarà la nostra casa per i prossimi tre giorni! Verremo infatti ospitati nel “Yakutskaya gorodskaya natsionalnaya gimnaziya”, un liceo di Yakutsk! Otto letti sono stati predisposti nel retro della palestra, in una graziosa stanza alle cui pareti sono sistemati i ritratti di tutti i grandi campioni di scacchi della storia. Incontriamo Tolya, il batterista degli CharmSS (e di tutti i gruppi punk di Yakutsk) e organizzatore della serata di domani. La scuola è deserta, ma – ci spiega – fra poco arriveranno gli studenti. Oggi si terrà per tutti loro un importante esame di chiusura dell’anno scolastico. Sono le sette del mattino (ma, a causa del fuso orario, per noi è circa mezzanotte) e, per ora, non ci poniamo molte domande. Tolya ci chiede quando ci sveglieremo, noi spariamo un’ora a caso. Poi crolliamo sui materassi e ci addormentiamo come lontre in letargo...
Riapriamo gli occhi con circa cinque ore di ritardo rispetto all’orario pattuito e la prima cosa che appuriamo è che… siamo davvero in una scuola. Non era un sogno, dunque. In lontananza si sente il vociare degli studenti e, mentre andiamo in bagno, incrociamo una bidella. Tolya (che probabilmente ha dormito seduto fuori dalla porta in attesa che ci svegliassimo) ci preleva per la colazione. Scendiamo nella mensa della scuola, dove ci attende una tavola imbandita di ogni ben di dio, naturalmente tutto vegano, cosa assolutamente inusuale in queste lande dove mangiare è sinonimo di carne bollita...

Siamo increduli, ma il meglio deve ancora venire: dopo la colazione veniamo condotti nell’auditorium della scuola, dove gli studenti hanno preparato uno spettacolo di musica tradizionale della Sacha-Yakuzia! In platea ci siamo solo noi, appena svegli, mezzi rincoglioniti dal jetleg, tutti neri, sporchi ed impolverati: lo spettacolo, con tanto di luci e palloncini colorati sul palco, è stato messo in piedi davvero solo per noi! Dopo il discorso di benvenuto di uno dei ragazzi, cala il buio e l’esibizione inizia…


Dopo quest'emozionante performance di musica pagana e ancestrale, è ora il momento di ascoltare un po' di moderno soft-rock della Sacha-Yakuzia, eseguito da una band di studenti. Ehi! Ma sanno suonare meglio di noi!

  

Il Preside ci chiede di esibirci, ma Tolya prende in pugno la situazione dicendo che è tardi e che abbiamo tante cose da fare. Che cosa? Certo, dobbiamo visitare il… museo del ghiaccio! E come ci andiamo? Col pulmino della scuola, naturalmente. Scopriamo infatti che il preside ci ha messo a disposizione lo scuolabus con l’autista, per tutta la durata della nostra permanenza: spiace vedere un servizio destinato agli studenti utilizzato per portare a bere otto punk italiani del tutto sfaticati. Però, tutto sommato, questa cosa della limousine è una gran comodità: chi non sognerebbe, uscito dal bar, di schioccare le dita e di vedere sbucare da dietro l’angolo uno scuolabus disposto a portarti in un altro bar?
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Sarta si pavoneggia con il suo nuovo mantello anti-gelo...
Il museo del ghiaccio, il cui nome autentico è il roboante “Regno del Permafrost”, è un sistema di caverne scavate nella terra ghiacciata, dentro una collina. Prima di entrare veniamo avvolti in pesanti mantelli anti-congelamento che ci fanno somigliare ai Rockets. Dentro la temperatura è di -20°. Ci sono buffe sculture di ghiaccio raffiguranti antichi guerrieri della Sacha-Yakuzia, ma anche faraoni di ghiaccio, un’opera di Picasso di ghiaccio, la Venere di Milo di ghiaccio, un letto matrimoniale di ghiaccio, un trono tipo quello all'inizio di Conan il Barbaro sempre di ghiaccio, sul quale ci sediamo per alcune foto da turisti scemi. E’ tutto molto suggestivo, soprattutto la stanza dove viene conservata una carcassa di mammuth: un simpatico elefante in pelliccia in avanzato stato di decomposizione, che puzza esattamente come un simpatico elefante in pelliccia in avanzato stato di
Il collettivo Kalashnikov è pronto a varcare le porte del Regno del Permafrost...
decomposizione. Siamo però emozionati, perché è il nostro primo, sgradevole, incontro con un mammuth. Qui in Sacha-Yakuzia il mammuth è un po’ la mascotte nazionale; benché estintosi da almeno quattromila anni è ancora protagonista della vita quotidiana degli abitanti e della cronaca locale: il sottosuolo qui è infatti pieno di resti di mammuth ben conservati nel permafrost. Talmente ben conservati che nel corso di uno scavo nei pressi della città è stata ritrovata una di queste carcasse che ancora conteneva del sangue in stato liquido! Ciò permetterà agli scienziati di clonare un mammuth, così, finalmente, potremo riavere tra di noi, zampettante, questo tenero, affettuoso, enorme magazzino di pulci e zecche che puzza come una montagna di sacchetti dell'umido che storicamente è il mammuth. Apprendiamo tutta questa storia della clonazione durante la visita al Museo del Mammuth di Yakutsk, dove un premuroso omino ci sottopone alla visione di un documentario di mezz’ora nel quale alcuni scienziati, con gioia e soddisfazione, spremono del sangue nerastro dalle carni putrefatte di un mammuth. Bene!

Vecchi dissapori riaffiorano tra i ghiacci eterni.


Detto questo, è venuto il momento di andare a bere le birre. Quindi schiocchiamo le dita e compare lo scuolabus, che ci porta in una esclusiva località di villeggiatura sulle rive del fiume Lena. Uscendo dalla città ci rendiamo conto della desolazione che ci circonda: pianure steppose senz’ombra di presenza umana si estendono ai lati della strada a perdita d’occhio. Qui, nella steppa, i segni della modernità, come le auto, i vestiti e noi stessi, sembrano fuori luogo: improvvisamente veniamo travolti dall’essenza pagana e barbarica di questo remoto angolo di mondo. A riportarci nel duemilaequindici ci pensa il resort deserto nel quale veniamo portati: costruito con la caratteristica sensibilità russa per la deturpazione paesaggistica, è una parentesi di cemento e piastrelle sulla riva di questo gigantesco fiume, che ci porta dritti nei racconti di Ballard, che abbondano di alberghi abbandonati e spettrali strutture turistiche nel nulla…

Stappiamo qualche lattina di Baltika davanti a questo spettacolo idilliaco e irreale, ed abbiamo finalmente la possibilità di chiacchierare con calma insieme a Toyla, Dima e Kesha. Il discorso vira presto verso la politica... In Sacha-Yakutia vive un buon cinquanta per cento di russi e di altre etnie dell'ex blocco sovietico (qui o per lavoro o perchè discendenti della generazione che, tra gli anni trenta e cinquanta, fu deportata da Stalin nei gulag), ma il restante cinquanta per cento è costituito da autoctoni, dai discendenti delle tribù indigene. I nostri tre amici fanno parte di questa metà della popolazione. La convivenza tra le etnie è sostanzialmente pacifica, ma non è tutto rose e fiori (anche perchè qui cresce solo erba secca)... “Noi yakuziani siamo così – dice Dima. Quando sono arrivati i cosacchi abbiamo detto, ok, vediamo che hanno da dirci questi cosacchi. Poi sono arrivati i bolscevichi e abbiamo pensato: ok, proviamo anche questa cosa chiamata comunismo. Poi è arrivato Putin, e abbiamo detto ciao Putin, vediamo un po’ che cosa hai in serbo per noi... naturalmente siamo rimasti fregati in tutte e tre le occasioni. Siamo un popolo pacifico, prendiamo quello che arriva, ma tutti si approfittano della nostra mansuetudine. La terra, qui, è piena di diamanti, potremmo essere il popolo più ricco del mondo, ma questa ricchezza finisce tutta a Mosca, e a noi resta poco. Quel poco che basta per mantenerci tranquilli. Il fatto è che a noi yakutiani della politica, quella che si fa nella capitale a novemila chilometri ad ovest di qui, non è mai interessato granché: siamo un popolo tribale, con tradizioni legate alla nostra religione pagana e di fatto viviamo del tutto isolati dal resto del mondo...”. Dima, tra una frase e l’altra, ride come un pazzo, come se trovasse irresistibilmente assurda tutta questa storia; per noi, quest’amara ironia, non è del tutto sorprendente, è solo una declinazione yakuziana del fatalismo russo.... 


Circa l’isolamento, chiediamo se da Yakutsk sia possibile raggiungere altre città o posti in cui insomma valga la pena di andare, ma pare che la metropoli più vicina sia Khabarovsk, a circa 2.500 chilometri di strade da incubo da qui. Dima e Tolya, hanno viaggiato (sono stati a Mosca, ed anche in Europa), ma a moltissimi yakuziani, per ragioni economiche e culturali, il turismo è precluso. Dima racconta una storiella che fa capire come questo strano popolo abbia vissuto per molto tempo appartato dal resto del mondo: una volta sua nonna ricevette un pacco di cibo dalla sorella che si era trasferita da tempo a Mosca. Nel pacco c’erano anche delle arance, una prelibatezza un po' costosa, ma non così rara per i moscoviti. La nonna le mangiò, ma non ne rimase entusiasta: disse alla sorella di non inviargliene più perché quei frutti avevano una buccia che non era affatto buona da magiare! Che amore gli Yakuziani!
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Yakutsk o fantascienza?
Tornati in città, mentre passeggiamo in cerca di un supermercato, capitiamo in una via ai bordi del centro cittadino: è assurdo, da un lato della strada ci sono le case, dall’altro la steppa più selvaggia, a predita d’occhio. La natura qui è una presenza quasi minacciosa!

Contemplando il fuoco eterno...
Ceniamo come al solito in mensa. Mentre siamo a tavola, chiediamo a Dima qual è il piatto tipico della Sacha-Yakutia. Lui ci pensa un po’, poi dice: “Il pesce congelato”. 
La notte trascorre serena nella scuola, ormai ci siamo ambientati e ci sentiamo un po’ come a casa: attraversiamo la palestra in ciabatte e mutande per andare a fare la doccia, ci sediamo nell'aula magna a leggere, scendiamo in mensa a bere un tè… Finalmente però giunge il tanto atteso momento del concerto, che si terrà in un bar chiamato “Sherwood” (sic). Lo Sherwood Bar è una casetta in un quartiere di casette, che sono tutti bar. Come scendiamo dal furgone veniamo assaliti da alcuni punk locali desiderosi di fare una raffica di fotografie insieme a noi. E' solo l'antipasto di una overdose di foto in posa. 
Il bar ha un aspetto trascurato, un po' dozzinale. Si suona senza palco in mezzo ai tavoli. Le corrotte pratiche dell'autografo e della foto di gruppo qui a Yakutsk toccano vertici inarrivabili: ciascun avventore del locale ha scattato una foto insieme a ciascuno di noi, in un delirio esponenziale di inutili ritratti dei nostri volti sudati. Nessuno qua ha mai visto un italiano, è un'occasione unica per fotografarlo e mostrarlo ai propri amici, che increduli, si domandano "ma stai parlando di un italiano vero?". D’altronde siamo la prima band straniera a mettere piede qui a Yakutsk dai primi anni ’90, quando una band finlandese (che poi sarebbero diventati gli Him) suonò da queste parti.

La fila per l'autografo

Azzardiamo un soundcheak che si rivela un po’ faticoso a causa degli ampli dalle fattezze misteriose che ci vengono messi a disposizione. A Yakutsk, dice Toyla, è molto difficile acquistare amplificatori perché semplicemente… non esistono negozi che li vendono!
Sono le sei di sera e comincia ad affluire allo Sherwood gente della più disparata: punk con la cresta, impiegati che staccano dal lavoro, grandi bevitori locali, teen-ager all'ultima moda, antichi disadattati, generose signore in abito da sera... notiamo con gioia che alcuni paganti sono già ubriachi persi e strafatti prima di entrare. I più discreti si presentano e ci augurano buona serata, altri, più espansivi, ci fanno prigionieri e ci sommergono di domande. Alcuni si servono dello smartphone e del traduttore automatico di Google per comunicare!           
Prima di noi si esibiscono tre band local: i Filosofia, i Frozen East e gli CharmSS. La prima cosa da segnalare è che Tolya suona la batteria in tutti e tre i gruppi. Sospettiamo che sia l’unico batterista della Sacha-Yakutia! I Filosofia sono giovanissimi e suonano post-punk tipo Joy Division, se possibile ancora più dimesso e sottovoce degli originali. Sembra quasi abbiamo timore di disturbare... Quando attaccano gli CharmSS una densa coltre di nihilismo e autodistruzione s'impossessa della stanza. Il loro set è un attacco sonico slabbrato, scoordinato, cieco. Raw punk sparato alla velocità della luce senza l'ombra di una melodia, suonato come se fosse l'ultima volta prima della fine di tutto... Se esiste uno spirito del punk nella sua più pagana e primigenia manifestazione è qui, ora, in questo pacchiano bar di Yakutsk, e ha gli occhi a mandorla!

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Petja, il cantante degli CharmSS, che si era prsentato al locale con una vistosa fasciatura al braccio, ora si dimena selvaggiamente sul palco, e della spalla slogata non sembra interessargli affatto. Come tanti cantanti punk russi notiamo che non ha i denti davanti...

Dopo venti minuti di rumore bianco, gli Sharm SS si congedano lasciandosi dietro una scia di disagio e malessere, che saranno però i simpatici Frozen East a dissipare con il loro spensierato... ska-core anni ’90! Un genere musicale che è un po' come il mammuth: preistoria nel resto del mondo, qui però ancora attuale. Gli “Est congelato”, vent'anni fa, trapiantati nella Bay Area, non avrebbero sfigurato in cartellone di fianco a Skankin' Pickle e Less Than Jake (eroi dei nostri balli adolescenziali).


Tocca infine a noi, e fin dalle prime note è chiaro che il coefficente di rovina sarà altissimo. Il caos regna sovrano: amplificatori che si spengono, prese che saltano, feedback lancinanti, birre che si rovesciano...


Ciò che è accaduto al Bar Sherwood dopo il concerto non è chiaro: nessuno ne ha ricordi attendibili. Alcuni raccontano di essere stati coinvolti in una rissa tra ubriachi sedata da un nano, altri di essere stati segregati dal proprietario nella cucina del locale ed obbligati a bere vodka recitando la formazione della Juve del campionato 2001-2002, altri di essere stati agganciati da un punk siberiano con un ritratto di Mussolini tatuato sul braccio entusiasta per poter condividere con alcuni italiani la sua ammirazione per il duce, altri ancora di aver ricevuto in dono, per meriti sportivi, la sciarpa della sqaudra di hockey della yakuzia ... insomma tutte cose, vere o false che siano, alle quali nessuno crederebbe, e che quindi è inutile raccontare.

Il preside
Ad un certo punto del surreale carosello torniamo in noi: ehi, è tardi! E domattina alle sei dobbiamo salire su un aereo per Mosca! Il piano originario era: suonare, salutare cortesemente tutti e tutte e correre come antilopi a dormire, risvegliandoci belli freschi all'alba per raggiungere l’aeroporto a bordo di una Lada senza paraurti guidata da uno di quei misteriosi kirghisi che qui fanno i tassisti. Naturalmente non andrà così (a parte per quanto riguarda il tassista kirghiso), perchè un ostacolo si inframnezzerà tra noi e i nostri piani: il Preside. Non sarà infatti una banda di punkacci locali ripieni di vodka a farci tirare mattina, ma l'inappuntabile Preside dello yakutskaya gorodskaya natsionalnaya gimnaziya! Rincasiamo a scuola intorno alle due del mattino, e lui è lì, impeccabile, in giacca e cravatta ad accoglierci. Noi in compenso siano sporchi, malvestiti, puzziamo come capre malate e siamo pure mezzi ubriachi. Il nostro ospite ha fatto preprarare dai cuochi della mensa una cena d'addio per la nostra imminente partenza, a base di pizza, pastasciutta e torte nuziali fosforescenti. Estrae poi un paio di bottiglie di champagne russo (75 centilitri di malditesta in bottiglia) e, dopo aver brindato, inizia un solenne discorso di commiato che si apre in questo modo: "E' la prima volta che mi trovo nella mia scuola a bere champagne alle due e mezza del mattino: spero che i miei nemici non mi stiano guardando dalla finestra". 
A fine pasto sono le tre, ma il Preside è inesauribile. Colpo di teatro: si assenta per qualche minuto per ricomparire in abiti tradizionali ed accompagnarci, così vestito, a visitare la scuola. Ci guida fino alla stanza delle percussioni, invitandoci a suonarle. Noi, in preda ad un raptus sciamanico e ottenebrati dallo champagne sovietico, non ce lo facciamo ripetere due volte: ci scagliamo su di esse battendole brutalmente, e rompendone una. Ma a lui non interessa, perchè è il momento di mostrarci la sua collezione di campanellini:
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La collezione di campanellini del preside
Poi accende uno schermo al plasma appeso alla parete e, sull'immagine fissa dello stemma della scuola, risuoano le note di un motivo epico-orchestrale che seguiamo in religioso silenzio. Siamo pietrificati dall'emozione, ma soprattutto dall'incomprensione. Il nostro eroe ha riservato come ultima tappa del tour il suo ufficio privato, nel quale ci accoglie con la fierezza del grande preside siberiano. Da parte nostra, per ricambiare cotanta cerimoniosa ospitalità, l'unica idea che abbiamo è di donare un nostro disco al Ministero dell'Istruzione della Sacha-Yakuzia. Anche il preside non si fa mancare una classicissima richiesta da punk russo: "Grazie! Me lo autografate?". Purtroppo è ora di chiamare il taxi kirghiso e raggiungere l'aereoporto... abbracciamo tutti e tutte. Chissà se un giorno li rivedremo... ciao Preside, ciao Toyla, ciao Dima, ciao Kesha... ciao posto assurdo chiamato Yakutsk: resterai per sempre nei nostri cuori! Улахан махтал!

Leaving Sacha-Yakutia


Postilla: i Cholbon e il rock sciamanico della Sacha-Yakuzia
Il rock, nella Repubblica di Sacha, non è un fatto che riguarda soltanto l'epoca post-sovietica: durante il periodo comunista, esisteva una grande rock band proveniente dai villaggi dal distretto di Verchenviljujskij, nel bassopiano della Sacha centrale: si chiamava Чолбо́н, che in dialetto yakuziano significa stella del mattino, cioè Venere, secondo le credenze locali "la stella che porta il freddo". Formatisi nel 1986, i Cholbon vengono definiti dalla critica dell'epoca i "Pink Floyd della Tundra" (sic) e, sei anni più tardi, registrano il loro primo album di ampia distribuzione, con il torvo titolo di "Pietra maledetta". 
I brani dei Cholbon, con testi in lingua sacha ispirati alla natura e titoli semplici, come "Il fiore calpestato", "Qualche volta" e "Dimmi", vantano un sound unico, e decisamente audace: un incrocio inaudito di rock progressivo, funky all'acqua di rose e musica sciamanica, comunque sia ben radicato nelle tradizioni culturali della terra d'origine. "Pietra maledetta" (1992) alterna momenti malinconici ad altri più solari, ma sono sopratutto i pezzi barbarici irti di mistero come "Sotto il mio cielo", "Tramonto" e "Campo di battaglia" ad impressionare. Suggestivo è l'intreccio tra gli strumenti rock (sax, sintetizzatori, chitarra elettrica...) e quelli tipici della musica siberiana, come il vargan (che poi è il nostro, siculo, scacciapensieri!); detto questo, il meglio i Cholbon lo offrivano però dal vivo, come testimonia il pittoresco video che trovate di seguito. Buon ascolto e... mиигин кытта үҥкүүлүөххүтүн баҕараҕыт дуо? 

>>> Download Чолбо́н - "Проклятый камень" album (1992) in .mp3 (.rar - 100 mb.)

Cholbon (1987 circa)

13/08/15

[Inauguriamo con questo post una nuova rubrica del blog, che si auspica di presentare con regolarità i report delle serate/concerti/iniziative che come collettivo organizziamo. Tanta è l'energia e la passione che noi, e tanti amici/amiche, mettiamo per sostenere i gruppi che passano in tour da Milano: però a volte tutto passa troppo in fretta e non si ha il tempo di soffermarsi su un bel niente! Ecco quindi il senso di questo nostro contributo, animato da antico spirito fanzinaro: una panoramica (ovviamente soggetiva e parziale) di quello che succede nella Milano punk/hc d.i.y. che speriamo possa risultare interessante, anche solo per chi si è perso qualcosa, o per chi vuole scoprire nuova musica, o ancora tastare il polso di quell'entità entropica e indecifrabile che qualcuno chiama "scena"...]

[Kalashnikov collective DIY anti-booking agency presents...]
Domenica 2 agosto 2015 / Casa Occupata di Viale Gorizia: folk-punk meeting! 
Lo scorso due agosto, abbiamo organizzato una seratina finalmente un po' diversa dal solito alla Casa occupata di viale Gorizia: per una volta niente ampli da scaricare, prese da infilare e cavi nei quali inciampare: quattro band folk-punk con strumenti rigorosamente acustici, senza un filo di elettricità! Il cartellone era rutilante e finanche di respiro internazionale: dalla Scozia, i Dangle Manatee, dalla Francia Giz Medium, da un po' più vicino Gab de la Vega ed infine i locals In Vino Veritas In Whisky Vomitas
Considerata la natura del set, si è pensato di evitare lo scantinato umido e stagnante della Casa e suonare in strada, sul marciapeidi, tra la gente che beve l'aperitivo in via Vigevano.
Ha aperto un Giz Medium un po' spaesato; vagabondando per l'europa, si è infilato quatto quatto in questa serata, chiedendo umilmente il permesso di suonare. Ma si accomodasse caro Giz! Il suo è un punk-rock chitarra/voce in bilico tra spensieratezza e malinconia. Naturalmente la formula senza amplificazione all'aperto è sempre un esperimento che può fallire, perchè spesso capita che tra il pubblico ci sia qualcuno che discute con un altro ad un volume più alto di chi canta... o comunque che ci sia un'atmosfera gioisamente (ma fatalmente) dispersiva e caotoica. Però in questo caso la formula ha funzionato, tanto che Giz tra una canzone e l'altra confessa la sua sorpresa: "Sono molto contento di essere qui, perché è la prima volta che quando suono qualcuno mi ascolta!". Eheheh! Dura la vita del bardo anarcopunk, destinato ad esibizioni solipsisitiche nel caos di una serata allo squat! 

Giz Medium
Giz ha registrato svariato materiale lo-fi, sia in versione one-man band chitarra/voce che in versione punk rock con distorsore e batteria, e sotto vari pseudonimi (Giz Medium, Xtramedium...); tutto il materiale è pubblicato dalla sua label, la Bus Stop Press. Il pezzo intitolato "Bus Stop Romance" è un po' il manifesto della poetica di Giz: "Una storia d'amore alla fermata dell'autobus inizia ogni giorno ed ogni notte / c'è solo bisogno di una panchina, di due o più persone che aspettano per un po' / un autobus che potrebbe non arrivare mai... una storia d'amore alla fermata inizia ogni giorno ed ogni notte / ma non per me, perchè sono troppo timido... e salgo senza dire una parola...".   
A proposito di trasporto pubblico, anche tra lo sferragliare dei tram che passano su Via Vigevano è un piacere ascoltare Gab De la Vega  e il suo cantautorato punk/hc pieno di passione e abnegazione. Il suo ultimo disco intitolato "Never look back" è l'ennesima tappa di un percorso musicale e letterario davvero sorprendente per la qualità sempre crescente messa in campo! Le canzoni di Gab parlano di temi concreti che riguardano la quotidianità di tutti e tutte noi che vivamo la musica punk e cerchiamo di districarci nel mondo sulla base di alcuni principi che gravitano intorno all'uguaglianza, al rispetto e ad altri valori romantici che poi regolaramente sbiadiscono, perdendosi nel caos delle cose; sono scritti con semplicità e soprattutto grande onestà intellettuale, e ciò li rende sinceri, autentici ed anche lirici. Pezzi come "I colori sono cambiati", "Fuori dalla visuale, fuori dalla testa" o "Vivere attraverso le parole" fanno riflettere partendo dalla condivisione del problema, senza rancore nè la pretesa di offrire soluzioni di comodo o trincerarsi dietro ai soliti slogan.
Quando calano le tenebre tocca a Pippa Stephenson e Hugh Sillytoe, il duo dei Dangle Manatee di Glasgow. il loro folk punk chitarra/violino con forti rimandi alla musica tradizionale scozzese e testi spiritosi è spassoso, e viene eseguito con straripante energia e giusta attitudine circense. Le loro canzoni hanno nomi buffi del tipo: "Ho fatto un errore quando ho rubato il gelato", "Ho tentato di essere un magnete per il frigo" oppure "Un pesce non può nuotare attraverso la crema pasticcera". I Dangle Manatee (che significa tricheco ciondolante) hanno pubblicato tre dischi autoprodotti, molto artigianali ma molto graziosi, nei quali alternano stornelli intimisti, poesie e spoken-word. Il loro tour proseguirà in modo avventuroso: qualche data in Italia fino a Bari, poi Albania, Kosovo, Macedonia, Grecia, Bulgaria e Romania.

I Dangle Manatee
Mentre il cappello gira, in piena tradizione busker, per accogliere le monetine degli astanti, tocca agli In Vino Veritas In Whisky Vomitas del Reverendo Maranzano. Putrida e malsana come le acque della Martesana, la loro musica mescola blues delle origini, stornello milanese da osteria e tracotanza punk/hc (i componenti vengono più o meno da quella scena). Il loro genere ha un nome antico, che è skiffle: nato intorno alla fine degli anni '40, lo skiffle è considerato un antesignano del rock'n'roll, e veniva solitamente suonato con strumenti di fortuna o autoprodotti: bidofoni, washboard, attrezzi, bottiglie... Diffusosi nei porti inglesi, era il "canto di disperazione" degli scaricatori e della fauna dei bassifondi. Gli I.V.V.I.W.V. utilizzano alcuni degli strumenti tradizionali del genere come il bidofono e il banjo, ma anche un notevole strumento improprio, ovvero la cossidetta, ehm, "sega musicale". L'esibizione del reverendo è istrionica e sghemba, perfetta nel contorno di appiccicoso caldo metropolitano e zanzare che è la Milano agostana. Dopo la hit del reverendo intitolata "I morti non soffrono il dopo-sbronza" (o qualcosa del genere), la serata si conclude in allegria, come il finale di una puntata dell'A-team, tra pacche sulle spalle ed abbracci di commiato. Lunga vita ai punk senza elettricità che suonan per la strada!  

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Postilla: Autori Vari - Strassenmusik (LP - West Germany 1981) 
[Visto che capita a fagiuolo, riproponiamo un articolo pubblicato un paio di anni fa su queste pagine...]
Il musicista di strada (busker) è una figura sempre molto suggestiva, ma anche un po' bistrattata, spesso assimilata dalla gente comune al mendicante o al ciarlatano. Per questi motivi, e per altri, ogni punk che si rispetti dovrebbe dedicare un po' di attenzione a quest'esponente della musica sbrindellata e perdente. Suonare senza elettricità, senza un palco e senza certezze - vi assicuriamo - è una liberazione!
Girando per le città europee ci è capitato di incontrare busker di ogni genere e fattezza; soprattutto le città tedesche, durante l'estate, pullulano di anti-musicisti da marciapiede. Proprio in una recente gitarella a Monaco di Baviera abbiamo trovato, in un negozio di dischi usati, questo vinile ("Strassenmusik", musica da strada), stampato nel 1981 da una minuscola etichetta locale: raccoglie registrazioni ambientali di alcuni artisti girovaghi effettuate in varie città tedesche tra la fine degli anni '70 e l'inizio degli anni '80. Siccome di questo disco non c'è traccia su internet abbiamo deciso di ripparlo e renderlo disponibile a tutti/e.
Certo il genere non vi piacerà granché (a meno che non amiate le atmosfere hippie-freak fuori tempo massimo): noi, di questo tipo di musica, troviamo entusiasmante l'approccio giocoso al fatto musicale, quello spirito un po' gonzo che ha qualcosa d'infantile e selvatico, che sarebbe bello riscoprire e fare proprio; un modo di vivere la musica che ci scaraventa in un mondo senza clamori e senza ovvietà, dove sono assenti le sovrastutture tipiche della musica rock e pop, con i suoi codici, le sue pose, il suo carattere un po' snob, i suoi copioni già scritti; una musica che si prende i suoi spazi come, dove e quando le pare, senza chiedere "é permesso?" a nessuno.
Che il punk sia diventato, oggi, innocuo e tragicamente ovvio, è un fatto sotto gli occhi di tutti: non avete l'impressione che le idee siano sempre meno, che i concerti siano spesso noiosi rituali, che i dischi suonino tutti uguali, che le serate siano stanche ripetizioni di copioni usurati? Giocare con le modalità, come, ad esempio, suonare per strada, nudi e crudi, senza corrente, davanti ad un pubblico di passaggio, tornare insomma a questo punto zero del fare musica, forse ci permetterebbe di soffermarci tutti/e sul senso di quello che noi, musicisti sbrindellati e perdenti, facciamo. Oltre che, nel frattempo, di far su un po' di moneta...