17/07/15

[In questa terza puntata del reportage sul nostro tour nell'ex-Urss:  un'orda di scarafaggi ci sale lungo la schiena durante il sonno, raggiungiamo a stomaco vuoto le estreme propaggini del mondo e l'incubo della catastrofe ecologica si materializza davanti ai nostri occhi all'improvviso, nella notte artica. Ed ancora: i cani possono volare, il rock comunista é vivo e i punk al polo nord sono caldi. Verso la penisola di Kola, attraversando mille chilometri di tundra... Grande Nord, eccoci!] 

Capitolo 3: 
Lunedì 25 maggio, da Petrozavodsk a Murmansk. Martedì 26 maggio, concerto a Murmansk.
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"I tram sono buoni, I trolleybus sono ok, la metropolitana pure, ma le renne sono meglio! Qui nella tundra non c’è confusione, non c’è disordine, non bisogna lottare per un parcheggio e soprattutto non ci sono poliziotti!
[Kola Beldy - А олени лучше! (Le renne sono meglio) (USSR 1977)]

Distanza tra Petrozavodsk e Murmansk? 960 chilometri. Ciao, si parte. Procediamo verso nord sulle strade della Carelia Bianca, sotto un cielo cristallino, tra foreste fittissime, ameni villaggi e putridi acquitrini. Ogni tanto una smoking break in un autogrill russian-style, uno spuntino frugale a base di riso bollito, cetrioli e cascate di caffè. Fuori dalle finestre, nei parcheggi ai bordi della foresta, si aggirano cani randagi molto simili a lupi. 
Dopo alcune ore di viaggio la vegetazione si fa più rada, gli alberi più bassi e i segni della presenza umana sempre meno frequenti. Tutto appare più paludoso, insalubre, decisamente inospitale; sotto i manti di erba e muschio la terra è una spugna impregnata d'acqua. “D'ora in poi bisogna far rifornimento a tutte le stazioni di benzina - dice Denis - perché saltandone una si rischia di rimanere a secco in mezzo alla tundra!”. Wow, la tundra! Non capita tutti i giorni di trovarsi in questo bioma tipico delle regioni sub-polari. Qui si possono ammirare driadi, mirtilli selvatici, licheni e... poco altro. La tundra è terra aspra e desolata!
Percorrere lunghi tragitti in furgone, è già di per se un’esperienza ubriacante, leggermente psichedelica, in questo caso lo è ancora di più perché il sole da queste parti, in tarda primavera, non tramonta mai e si perde completamente il senso del tempo. Viaggiamo in silenzio osservando dal finestrino questa natura sempre più ostile intorno a noi...


Swamps
Ad un certo punto il cielo si colora di un leggero arancione, a suggerire l’idea vaga di un tramonto, ma pochi minuti dopo il sole è già alto e sembra mattina, benché sia notte fonda: il sole ha disegnato un'ellisse nel cielo senza mai scendere oltre l'orizzonte...



Dopo circa dieci ore di viaggio facciamo una pausa accanto alla stele che indica il punto in cui passa il Circolo Polare Artico...

Al circolo polare artico si risvegliano alcuni vecchi dissapori...

Approaching Monchegorsk
Proseguendo la marcia verso nord non incrociamo nessuno, se non qualche tir polveroso. Ogni volta che ci imbattiamo in un cartello con la distanza che ci separa da Murmansk mettiamo una mano sugli occhi per non vederlo. Chi ha il coraggio di leggere il numero a tre cifre che segue prorompe in una risata isterica e sviene. Non abbiamo più sete, fame, sonno, non sappiamo dove siamo, non sappiamo se è notte o giorno. 
Improvvisamente ci troviamo in un tratto di territorio nel quale la vegetazione sembra essere stata spazzata via da una qualche misteriosa catastrofe: la terra è scura, disseminata di vegetazione bruciata, scheletri d’albero dai rami secchi e contorti. Vediamo poi stagliarsi ciclopiche ciminiere in mezzo al nulla e, in un avvallamento, sorgere una tetra cittadina con i soliti edifici in stile sovietico duro. Perchè qui è tutto così orribile? Chiediamo. “Perché siamo nei pressi del fucking hell of Monchegorsk - ci dice Denis - dove la gente muore a quarant’anni a causa dell'inquinamento”... 

Monchegorsk d'estate
Monchegorsk d'inverno

Guardiamo fuori dal finestrino stregati da questa visione irreale sotto il pallido sole di mezzanotte. Qui si estrae e si lavora il nickel per la più grande industria russa del settore (la famigerata Norilsk Nikel) e ciò rende questa cittadina una delle più inquinate di tutta la Federazione. "Se ci si ferma attorno a questi acquitrini non si sente nessun rumore: niente gracidare di rane o ronzare di insetti. E' tutto morto!". Quando Monchegorsk scompare dietro ad una collina, la vegetazione e tutto il resto tornano al loro posto, e sembra quasi di risvegliarsi da un brutto sogno...
Dopo circa sedici ore di furgone, intorno alle due e mezza di notte, giungiamo in prossimità di Murmansk... 


Il cielo è chiarissimo, ma la qualità della luce è strana; ha qualcosa di anemico, di emaciato. E’ la tipica luce delle notti artiche. Murmansk ci appare un filino spaventosa sotto questo cielo esangue: i brutti edifici sovietici scrostati dal gelo sono gettati qua e là senza apparente logica, gli spazi residuali tra una costruzione e l’altra sono sudici e fangosi... Il gps ci ha lasciati da un paio di giorni e Denis cerca di orientarsi a memoria, ma non vuole ammettere che non ha la più pallida idea di dove andare. Ad un certo punto però avvistiamo un tizio col giubbotto correrci dietro dall’altra parte della strada… è Kiril! Kiril ha venticinque anni, trascorsi interamente qui a Murmansk. Ha organizzato il concerto di domani (o oggi, dato che è l’alba) e ci porterà a casa sua per riposare dopo il lungo viaggio. L’appartamento di Kiril sorge in mezzo ad una distessa di pozzanghere e melma nella periferia della città. Dentro fa molto caldo, ed è tutto molto stretto: Kiril però è stato gentilissimo e ha cercato di mettere insieme più letti possibile (non è semplice ospitare nove persone in una casa di cinquanta metri quadri!). Quindi, povero, lui ha dormito sul pavimento della cucina, mentre Denis si è accomodato… sul balcone! “Oh, non preoccupatevi – dice -, per i russi dormire in balcone è normale, anzi è un lusso, perché il balcone è fresco e arieggiato”. Boh. In effetti a casa di Kiril pare che le finestre non vengano aperte da tempo immemore, c’è aria stagnante, ma crediamo sia perfettamente normale a queste latitudini estreme. Scopriamo che anche gli scarafaggi sono un fatto comune da queste parti. E in questo appartamento ce ne sono tanti. Ma non ci facciamo tanto caso e ci adagiamo dolcemente accanto a loro, addormentandoci con l’impressione che vivere qui a Murmansk non sia un granché. Al risveglio, la fabbrica di cemento fuori dalla finestra è a pieno regime... 

Concrete reality
Denis?
Là ci ho lavorato quando ero più giovane. Un posto schifoso!” ci dice Kiril. Ti piace vivere a Murmansk? Gli chiediamo. “Certo che no. Non piace a nessuno vivere a Murmansk! Tutti ci vivono solo per i soldi, perché c’è lavoro…”. Bah, qualcosa di buono questa cittadina di 300.000 abitanti, la più popolosa al di sopra del circolo polare artico, avrà pure… Dato che Denis, o quel bruco gigante accartocciato in mezzo alla spazzatura in balcone che dovrebbe essere Denis, dorme ancora, decidiamo di andare a passeggiare fuori per fare colazione in un bar o qualcosa di simile. Mentre comunichiamo questa cosa a Kiril, lui ci guarda come se ci uscissero delle larve dalle orecchie. “Guardate dalla finestra, vi pare che qui possa esserci un bar?”. Bisogna prendere il furgone e andare in centro. Ci rimettiamo a sedere tra gli scarafaggi, con la faccia triste. Dopo un secondo però compare Denis: la sua metamorfosi da bruco a farfalla è stata repentina. Sfarfalliamo come falene affamate giù in strada, montiamo sul furgo e ci dirigiamo in centro per un pranzo/colazione/merenda (non sappiamo bene che ore sono). Il centro della città è in realtà quasi grazioso: larghi viali di gusto staliniano, marciapiedi vivaci, librerie, negozi… ma neanche un posto dove mangiare! Poi troviamo un self-service e finalmente ci abbuffiamo di… riso e cetrioli. Di nuovo in forze (più o meno) risaliamo sui sedili del furgone per una breve gita fuori porta: Denis ci tiene molto a portarci a vedere l’oceano artico, a 120 chilometri a nord-est di Murmansk. Si tratta dell’unico punto dove in Russia è possibile raggiungere su gomme le estreme propaggini della terra ferma ed affacciarsi sul nulla artico. La strada è buona? Chiediamo. “I primi ottanta chilometri sì, gli altri quaranta non tanto”. Ci preoccupiamo un po’ perché una strada non tanto buona per un russo, per chiunque altro non è realmente una strada. 

Sfrecciamo in mezzo alla tundra a cento all'ora e più avanziamo più il panorama si fa surreale, pressappoco onirico... La vegetazione ormai è quasi del tutto scomparsa, si notano ampie aree ghiacciate negli avvallamenti del terreno, il cielo ha uno strano colore lattescente e il vento è gelido. 




Qui vicino, dice Denis, c’è un villaggio che è chiamato il Villaggio dei Cani Volanti: il vento lì soffia talmente forte che a volte i cani prendono il volo. Scoppiamo a ridere come matti, soprattutto perché Denis sembra essere serio. Immaginiamo cani legati al guinzaglio svolazzare come palloncini con l’aria infelice. In Russia succedono cose strane, anche molto più strane di questa, quindi tutto sommato ci convinciamo che un’ipotesi del genere possa non essere così remota... Superiamo il villaggio dei cani volanti e svoltiamo verso Teriberka, il villaggio da cui si raggiunge poi l’oceano. La strada è sterrata, piena di sassi e buche, le sospensioni del furgone sono sottoposte a tortura...
Avvicinandoci a Teriberka non crediamo ai nostri occhi: case di legno completamente marce, alcune del tutto sfasciate, orribili edifici in cemento, coltri di fango, calcinacci, carcasse di vecchie auto, spazzatura ovunque. Le copertine catastrofiche e post-apocalittiche dei dischi crust sono quadretti idilliaci se paragonati a Teriberka... 




Da oggi, abbiamo un luogo dove non vorremmo mai vivere, qualsiasi cosa accada. E si chiama Teriberka. Mentre costeggiamo alcuni scheletri di imbarcazioni riversi nell'acqua stagnante, pensiamo che qui tutto abbia più l'aspetto di un cimitero che di un luogo abitato... 

Poi però ci imbattiamo in un paio di edifici che sembrano più recenti, uno probabilmente è una sede amministrativa, l’altro una scuola. Avvistiamo due babushke ad una bancarella che vendono fiori e in lontananza un cane abbaia legato ad una catena (ma non vola). Sono molto scarsi i segni di vita qui a Teriberka, che scopriamo essere una cittadina di mille abitanti, per lo più pescatori di spugne di mare, collocata quasi per punizione divina in questo incredibile finis terrae.




Attraversata la cittadina, Denis imbocca un sentiero dissestato che taglia in due una discarica a cialo aperto... A Teriberka non c’è un servizio di raccolta e smaltimento dei rifiuti, e la spazzatura viene gettata in uno spiazzo, tanto poi per dieci mesi all’anno viene coperta dalla neve! 
Pochi metri ancora ed ecco finalmente… il mar glaciale artico! 



  I vecchi dissapori non si placano nemmeno in riva al mar glaciale...
Denis è sorpreso dal fatto che nessuno abbia ancora aperto un resort qui: ritiene che sia un posto bellissimo e che a molti piacerebbe passarvi qualche giorno a contemplare la natura; immaginando il tipico turista russo che affolla gli alberghi della riviera romagnola, sospettiamo che a Denis manchi, come dire, un pizzico di fiuto per gli affari... 

Ipnotizzati da quest'orizzonte infinito ripensiamo a quando, vent'anni fa abbiamo iniziato a suonare assieme, quattro babbei senz'arte né parte chiusi nella saletta dell'oratorio a tentare di mettere insieme una canzone di tre accordi... senza riuscirci il più delle volte. Chi avrebbe mai pensato, allora, che la nostra musica un giorno ci avrebbe portato qui, ai confini del mondo, a suonare a Murmansk, a quattrocento chilometri a nord del circolo polare artico? Ehi, a proposito: è tardi e dobbiamo tornare in città per il concerto!
Il posto dove suoneremo si trova in un quartiere periferico della città che ospita varie autofficine e garage, all’interno di uno di queste, di proprietà di un frikkettone locale, la comunità punk ha messo a punto una specie di squattone rovina, con bar, sala concerti, back stage. Il classico posto semi-legal alla russa nel quale ormai ci sentiamo a casa. La messa a terra, qui, è un sogno: dai microfoni escono scariche elettriche tuonanti, tutto gracchia, scricchiola, gli ampli sono di marche sconosciute e sfrigolano come friggitrici piene di aringhe. C’è una dispersione pazzesca: l’impianto elettrico sembra essere sull’orlo di un colossale corto circuito. Alla fine riusciamo a portare a termine il soundcheck senza essere folgorati. 
A poco a poco affluiscon i punx locali. Tutti e tutte ci guardano come strane creature bipedi appartenenti ad una razza estinta: siamo i primi italiani che vedono quassù e uno dei pochi gruppi stranieri (e che non siano finlandesi) a suonare a Murmansk. I ragazzi e le ragazze vogliono sapere tutto di noi: che cosa pensiamo della loro città, perché siamo qui, come ci chiamiamo, che cosa ci piace mangiare... vogliono fotografie e soprattutto autografi (su dischi, scarpe, magliette, borse... pelle umana!). Una ragazza ha addirittura un tatuaggio enorme sul petto raffigurante la copertina di un nostro disco! E’ bello ricevere questo tipo di accoglienza, ma fa un effetto strano, imbarazza in alcuni frangenti: non si sa bene che cosa fare e che cosa dire!

L'antica consuetudine dell'autografo: borse, scarpe e costato.
Aprono il concerto le band locali: gli “Imposizione della pace” (Принуждение К Миру), gli Artica '77 e i Varzuga, con il loro spaventoso e marcissimo death metal pagano. Ma quelli che più ci incuriosiscono sono i Polar Pravda (prendono il nome appunto dalla Полярная Правда, la gazzetta dei soviet fondata a Murmansk negli anni '20) che ci vengono presentati come un band di “rock comunista”. Comunista? Pare che questi ventenni siano in effetti nostalgici del periodo sovietico e ne cantino le virtù, benché per ovvie ragioni anagrafiche non le abbiano mai conosciute. E lo fanno con un punk rock dimesso e del tutto scombinato, in pieno stile siberiano. Il cantante siede di lato, sullo spigolo del palco, se ne sta lì con la sua birra e di tanto in tanto, svogliatamente, riversa rantoli fangosi nel microfono. Poi si alza e passeggia preso male da una parte all'altra della stanza; quando non canta si disintressa totalmente del pubblico ed osserva i suoi compagni di band, scocciato dai lunghi intermezzi strumentali. Insomma, un cosa mai vista prima. Aspettiamo con trepidazione il successo internazionale dei Polar Pravda, che, siamo sicuri, cambierà per sempre il modo di intendere la musica rock. Infine, come di consueto... noi!


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Alla fine festeggiamo tutti e tutte la magnifica serata (anche se è pieno giorno!) con una fotona di gruppo sotto il sole di mezzanotte!

Spasiba, Murmansk punx!

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Kola Beldy
Postilla: Kola Beldy, Sergey Kuriokhin e all cops are bastards.
Lo percepite lo spirito del grande Kola?” ci chiede Denis mentre, nel dormiveglia, attraversiamo la tundra sotto la luce obliqua della notte artica. Ehm... certo! Denis si riferisce a Kola Beldy, della cui musica tutti noi siamo profondi estimatori. Chi è Kola Beldy? La leggenda vuole che sia nato nel 1929 in un villaggio nei pressi di Khabarovsk, nell'estremo oriente russo, da una famiglia poverissima di etnia nanai. Sempre la leggenda vuole che il giovane Kola, rimasto orfano, barando sull’età sia riuscito ad imbarcarsi come mozzo nella Flotta del Pacifico durante la seconda guerra mondiale e che abbia combattuto in Corea, con siffatto ardore da essere insignito, alla fine della guerra, di svariate medaglie al valore. In tempo di pace si scopre cantante e, grazie alle sue straordinarie doti vocali e sceniche, viene avviato verso una brillante carriera musicale di regime, che lo porterà a diventare molto popolare in Unione Sovietica come cantore dei popoli dell'estremo nord e delle minoranze etniche dei luoghi più remoti della Siberia. Trasferitosi a Mosca, tocca il culmine della sua popolarità negli anni '70, nel panorama musicale sovietico incline al macabro e al kitsch dell'epoca di Breznev. Kola si fa interprete, nella sua musica, di tutte le sparute etnie indigene delle regioni artiche, cantore della tundra e di tutte quelle figure un po' pittoresche che la animano: il pastore sulla slitta, il pescatore di aringhe, il villico un po' ingenuo che sgranocchia cotenna di balena… ma è soprattutto la renna le vera protagonista della musica di Kola, come nel brano (che trovate all'inizio di questo post) “Le renne sono meglio”, il cui testo per altro esprime quella tradizionale ostilità anarcopunk nei confronti delle forze dell’ordine: “I tram sono buoni, I trolleybus sono ok, la metropolitana pure, ma le renne sono meglio! Qui nella tundra non c’è confusione, non c’è disordine, non bisogna lottare per un parcheggio e soprattutto non ci sono poliziotti!”.
Nell’epoca dei profondi stravolgimenti che investono la società russa negli anni '80, la carriera di Kola sembra però destinata a declinare: come tutte le icone della demenziale era brezneviana, rappresenta anch'egli quel passato ampiamente denigrato dalle nuove generazioni. O forse no? Kola non è proprio come gli altri: la sua storia, la sua provenienza e soprattutto il suo stile canoro infatti lo rendono interessante anche per i musicisti più iconoclasti della Perestrojka, come, ad esempio, Sergei Kuriokhin.

Sergei Kuriokhin
Senza neanche farlo apposta Sergei è nato Murmansk, nelle lande innevate cantate da Kola Beldy. Negli anni settanta è uno stimato pianista jazz, prima di ribellarsi alle ovvietà della musica di genere e mettere in piedi, all’inizio degli anni ‘80, un progetto suicida votato all’anarchia e al caos: la Meccanica Popolare. Dice lo stesso Kuriokhin. “Meccanica Popolare consiste praticamente di tutto ciò che incontro. Arrivo in una città, vado sul luogo dello spettacolo e vedo che cosa e chi c'è a disposizione. Poi chiamo tutti i possibili partecipanti, li provo un po' e invento un luogo e un ruolo per ognuno”. 
Artemy Troitsky, il divulgatore del rock russo ai tempi di Gorbaciov, descrive così la formula di Kuriokhin: “C'è sempre una folla ansiosa di contribuire a Meccanica Popolare. A volte vengono invitati esecutori singoli, a volte interi gruppi. Il risultato è grandioso, una Babilonia dell'arte che intrappola gente di tutti i tipi, dai musicisti “industriali” che picchiano sul metallo ai musicisti etnici tradizionali, e poi pittori, attori, mimi, compagnie intere, bambini e animali. Il nucleo di Meccanica Popolare – una mezza dozzina di strumentisti – resta in scena per tutto lo spettacolo e produce un sottofondo rumoroso e costante. Tutti gli altri partecipano seguendo gli ordini del direttore Kuriokhin, che sembra un generale sul teatro delle operazioni metnre manda le sue divisioni in battaglia. […] Per Kuriokhin più la combinazione è incongrua e ridicola e migliore è l'effetto che di ottinene. Mentre un famoso cantante d'opera esegue arie dalla Tosca una turba di oche agitate e starnazzanti viene spinta sul palcoscenico; modelle con biancheria intima sado-maso incedono cercando di sedurre la banda di fiati della Marina; quando una star della chitarra suona l'assolo blues più mozzafiato qualcuno improvvisamente inizia a fare a pezzi dei mattoni... e avanti di questo passo”...

Meccanica Popolare live: composizione per basso, chitarra, ombrello e appendiabiti.



Meccanica popolare live: la band è sotto l'assedio della nazionale femminile di tiro con l'arco



Meccanica Popolare live: rutilante botta e risposta tra i sassofonisti, i polli e...
...una capra.

I destini di Kuriokhin e Kola Beldy si incrociano nel 1988 quando il primo invita il secondo a partecipare ad un happening musical-orgiastico della Meccanica Popolare. Ne esce una esibizione epica:



Scrive Troitsky: “Una volta Kuriokhin invitò ad uno spettacolo un uomo chiamato Kola Beldy, un cantante pop eschimese di cinquant'anni che negli anni settanta ebbe alcuni hits tundra-style e che viene ritenuto il marchio di garanzia del kitsch pop artico sovietico. Il suo contributo a Meccanica Popolare fu naturalmente accolto con un uragano di applausi e di risate, e questo fece felice Kola Beldy. “Poveraccio, era così commosso, ha abbracciato e baciato il Capitano (soprannome di Kuriokhin) sul palco... non si è reso conto che in realtà era stato crudelmente ridicolizzato” mi ha raccontato uno dei membri fissi della band”.

L'anonimo strumentista forse però sottovalutò lo Spirito della Tundra: è così scontato che fu il metropolitano Kuriokhin a farsi beffe del villico Kola, oppure è vero il contrario, cioè che Kola intravide nell'avanguardia new-wave il contesto ideale nel quale infondere nuova linfa vitale alla propria ispirazione? 
Ad avvalorare questa tesi, un anno dopo, nel 1989, esce sul mercato discografico sovietico l'album "Белый Остров" (Isola bianca) di Kola Beldy: un disco indefinibile, inaudito e tremendamente evocativo, considerato ancora oggi uno dei più incredibili e singolari album del rock russo dell'epoca della Perestrojka; in sede di registrazione, Kola non viene accompagnato dalla solita orchestra di Stato di mestieranti in formalina, ma da un giovane complesso post-punk moscovita, e il risultato è... ethno-minimal-wave? Arctic-Industrial music? Taiga-punk? Come definire l'improbabile incrocio tra musica eschimese e cupo, scarno post-punk dalle venature no-wave di Isola bianca? Non lo possiamo di certo chiedere al nostro eroe che, di lì a poco, rinunciando alla vita agiata e mondana della capitale, si ritira a Khabarovsk, nella terra delle sue origini e morirà d'infarto nel 1993...

>>> Download KOLA BELDY "Белый Остров" album (USSR 1989) in mp3 (.rar - 99 mb.) 

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