13/03/07

[We talk about…]
P-U-N-K !
[Chi segue i Kalashnikov dai loro esordi, ha ben presente quella frasetta che ogni tanto è comparsa su dischi, volantini etc…etc… ovvero: “Perché essere punk se puoi essere te stesso?”. Una fugace polemica contro il punk inteso come moda, come divisa, come stile di vita superficiale e come genere musicale codificato, che all’epoca ci sembrava attuale. Quella domandina retorica non è nostra invenzione - lo abbiamo sempre sottolineato quando è capitato che qualcuno ce lo chiedesse: si tratta dell’esordio di un articoletto comparso sul n. 1 di Menti Sconvolte (settembre 1983), fanzine della provincia di Udine, a firma di una misconosciuta band dell’epoca, i Nagasaki. Non credo di aver mai riesumato quell’articolo; oggi è il momento di farlo: aldilà delle ingenuità e di alcuni aspetti anacronistici, il succo del discorso è piuttosto attuale. Credo più oggi di quanto lo fosse allora…]
Perché essere punk quando puoi essere te stesso? Punk noi pensiamo sia una divisa per colmare il vuoto di menti atrofizzate. Menti imprigionate da ciò che viene loro imposto sin dai primi giorni di vita. Non vediamo l’utilità di voler forzare la propria personalità. Ci pare assurdo scimmiottare personaggi che si sono arricchiti alle spalle di chi ha prestato loro attenzione. Noi siamo invece convinti che situazioni come l’autogestione siano assolutamente necessarie per la creazione di qualcosa di nostro, lontano da cose in cui non crediamo. Oggi il punk è un etichetta fine a se stessa e niente più. Una definizione di comodo dietro la quale rifugiarsi, nascondendo la è propria ignoranza e mancanza di idee positive. Un’orrida maschera dietro la quale molta gente spera di rifugiarsi, trovando un’ipotetica quanto utopistica libertà. La libertà dello struzzo, il quale nascondendo la propria testa nella sabbia crede di estraniarsi, trovando una maggiore sicurezza. Ogni significato che fu attribuito alla parola “punk” ha ormai perso ogni credibilità Ti guardi intorno e vedi una cresta che spunta da una macchina pagata 10 milioni, senti in giro di punk impegnatissimi che si fanno un mese e passa di vacanza a Londra (capitale riconosciuta del punk… merda), ti dicono “io sono contro ogni droga!” e li ritrovi a qualche festa stupidissima che si fanno una canna o sniffano trielina, si dichiarano contro la violenza e parlano di pacifismo, ma sono sempre pronti a fare a pugni, cosa questa che dà loro la possibilità di dimostrare la propria mascolinità. Da parte nostra, continueremo a parlare di pacifismo, non-violenza ed anarchia, ma rifiuteremo sempre di essere catalogati.
[Adoro scritti come questo! Nella loro ingenuità rappresentano un momento di crescita importante, quello della negazione. Negare è importante, perché cambiare è importante: quallo che la gente chiama “coerenza” è un fantoccio, uno di quei valori che tutti nella società moderna sbandierano come ebeti perché di moda, come l’essere “vero”, “semplice” o “spontaneo”. Stronzate! L’esistenza è un percorso senza capolinea; il cambiamento fa parte del gioco, è vita. Tanto è difficile cambiare dentro, in profondità, quanto è facile cambiare nella scorza, nell’aspetto, nelle frequentazioni, nel tipo di musica che si ascolta. Cambiare fuori può anche non servire a nulla, ma chi lo fa non è incoerente: è in grado di affrontare criticamente l’esistente, dietro alla maschera, cerca faticosamente di cambiare quello che ha dentro, sforzandosi, almeno per se stesso, di essere migliore. Il punk è moda? Bene, in quanto tale ognuno è libero di indossarla e smetterla quando vuole, se quella moda non rispecchia più idee o valori che prima sembrava veicolare così bene. Se poi è anche altro, tanto meglio, w il punk! Nella copertina della propria cassetta autoprodotta, gli Wops (gradissima e misconosciuta h.c. band veneta) nel 1982 scrivevano…]
Il punk non è morto: è stato masticato, inghiottito e riciclato dall’industria discografica e dalla stampa, trasformato in un luccicante fenomeno di costume, con le sue stars, i suoi riti e le sue vittime. Dalla spontaneità dei sentimenti alla costruzione di un look e di un atteggiamento. Si è arrivati ad un punto tale di rincoglionimento che una punk band è costretta a proporsi secondo certi schemi per poter offrire credibilità e sperare di ottenere un minimo di riscontro. Tutti sono iperalternativi, iperanarchici, tutti sono incazzati e vogliono fottere il sistema. Che belli i bracciali borchiati punk, le A cerchiate dipinte sul giubbotto punk, le spillette degli Exploited comprate ai concerti punk… Sono questi i nostri simboli? Sono questi i nostri trofei? Sta nascendo un nuovo ghetto: dischi e demo-tapes vengono fatti per essere venduti esclusivamente da punx ai punx; i testi scontano l’aridità degli slogans della cultura televisiva del dopo ’77. Vengono usate le stesse strategie di classificazione, scelta e giudizio della stampa musicale che si vuole contestare. Si sta creando un ghetto, innalzando quelle stesse barriere che si dice di voler distruggere. Noi non siamo liberi. Se il punk è solo una moda, noi non siamo dei punks.
[All’epoca, dichiarazioni come queste erano all’ordine del giorno, tra le pagine delle fanzine, come nei dibattiti dei collettivi; oggi possono essere sorpassate nella forma, ma non nella sostanza. Togliendo “punk” e mettendoci un qualsiasi termine che indichi una qualsiasi cultura musical-giovanilistica il risultato non cambia. L’importante è essere vigili, farsi delle domande, essere, per quato è possibile, “ineffabili”, perché la dissidenza è anche non offrire al prossimo punti di riferimento per giudicare. Poi, il resto, è folklore o come dicevano i Raf Punk (anarco-punk band emiliana, per restare in tema!): “La solita minestra: il punk è vivo o morto? La risposta è: chi se ne frega!”. Puj]

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