23/07/19

03/10/17

[We talk about...punk in Iceland!]
"Vogliamo tutto!" (punk in Islanda, parte II)
Islanda: ebbene sì, anche la remota isola dei vulcani, ficcata nell'estremo nord europeo, ha avuto una interessante e vivace scena punk! Dopo aver parlato dei trascorsi adolescenziali di Björk, trattiamo invece ora degli altri gruppi che hanno animato la scena punk islandese tra il 1980 e il 1984: band incredibilmente prolifiche, alcune dalla vita brevissima, che in pochi anni ci hanno lasciato tanti dischi interessanti e sorprendentemente originali. Come già accennato, alla fine degli anni Settanta nei locali e nei teatri di Reykjavìk – capitale e unica vera e propria città dell'isola – si esibivano soltanto loffie cover band di gruppi anglosassoni o americani: l'unica concessione alla creatività era affidata a qualche sparuto rocker che scriveva canzoni hard-rock o simil-prog destinate a rimanere confinate da quelle parti. Ma, fortunatamente, al volgere del decennio, nelle strade della tranquilla città scandinava, irrompe il punk!

In principio furono le rane...
Leggenda vuole che i primi a suonare punk in terra islandese siano stati i Fræbbblarnir (le rane), attivi dal 1978 ma le cui prime uscite discografiche risalgono al 1980. La loro attitudine rende bene l'idea dello “stacco” che la scena punk ha attuato rispetto agli stereotipi della cultura generalista di sinistra diffusa sull'isola: “Ci stiamo stancando della cultura socialista e della gente vestita da hippie. Non basta avere il logo di una falce e un martello perché una cosa piaccia. Siamo stufi: non è vero che se non hai lavorato in una fabbrica di pesce per dieci anni, allora non sei figo...”. “Gli islandesi – parla il bassista Steinƥòr Stefànsson – pensano che gli anarchici e la sinistra facciano parte dello stesso fenomeno. In realtà, guardate quegli anarchici che si decorano i giubbotti con la lettera A cerchiata e altra roba che non sanno nemmeno cosa significa. Non basta mettersi addosso qualche simbolo se non sai nulla di quello che vuol dire. Se le cose stanno così, questa gente potrebbe mettersi pure addosso le svastiche, sarebbe la stessa cosa. L'anarchia per alcuni qui è semplice moda, come i simboli della pace e tutte 'ste stronzate...”. La band, attiva ancora oggi dopo innumerevoli pause e svariati cambi di formazione, è dedita ad un punk rock bello scassato, ricco di motivetti più adatti all'Oktober Fest che alla terra dei vulcani. Comunque sia, il loro primo disco “Viltu Nammi Væna” (Vuoi una caramella?) del 1980 è un classico per i punx islandesi ancora oggi e il loro chitarrista cantante Valgarður Guðjónsson è una piccola celebrità in patria.

Scarica “Viltu Nammi Væna” (1980) dei Fræbbblarnir




Il successo della radioattività - gli Utangarðsmenn
Ma nel 1980 esce anche Geislavirkir (radioattività), il disco d'esordio degli Utangarðsmenn (gli Stranieri), che si rivela, inaspettatamente, un successone e spianerà la strada alle altre punk band dell'isola sino ad allora chiuse negli scantinati e nei garage a provare senza uno straccio di spazio dove fare concerti. In realtà il disco presenta sonorità ancora piuttosto legate al rock del decennio precedente, con diversi pezzi reggae in salsa nordica. D'altronde titoli come “China reggae”, per quanto buffi se immaginati in un contesto di freddo e neve, parlano chiaro...Ad ogni modo, in patria, gli Utangarðsmenn ci sanno fare e diventano un piccolo fenomeno discografico, tanto che quando i Clash faranno il loro storico concerto a Reykjavìk il 21 giugno del 1980, loro suoneranno da spalla.

Scarica Geislavirkir (1980) degli Utangarðsmenn


Bubbi "testa calda" Morthens
Ma come vuole la prassi della mitologia rock'n'roll, all'apice del successo in patria, i rapporti degli altri membri della band con il cantante Bubbi Morthens, alla fine del 1981 dopo un altro album e un ep, non sono dei migliori. A dirla tutta, il giovane Bubbi doveva essere, come dire, un'adorabile testa di cazzo: sì, proprio così! A vederlo negli spezzoni della sua intervista sul documentario “Rock in Reykjavìk” del 1982, con i piedi sul tavolo, jeans e maglietta bianca, sigaretta in mano a pontificare di politica, sesso e droga, non si può che pensare: minchia ma quanto se la tira questo? I suoi compagni di gruppo, ad un certo punto, avranno probabilmente pensato la stessa cosa. Dopo essersi confrontati tra loro, si decidono a parlargli chiaro in faccia: sei troppo egocentrico Bubbi, gli dicono, datti una calmata. E lui cosa fa? Incassa, s'incazza e molla il gruppo: ne fonderà subito dopo un altro con il fratello chitarrista e un amico alla batteria. E li chiamerà Egò. Ecco, pigliatevi questo, stronzi. Bella canaglia questo Bubbi...
La dipartita del cantante porta allo scioglimento degli Utangarðsmenn. Gli Egò invece, il nuovo gruppo di Bubbi Morthens, suonano un buon rock melodico ma ci mostrano una musica dall'approccio e dalle tematiche piuttosto lontana dal punk che ci interessa. Pubblicheranno due dischi nel 1982 e un terzo due anni dopo, si dice, per necessità contrattuali. La verità è che, guardando alla carriera di Bubbi che è ancora oggi in pista con chitarra acustica e piglio da Bruce Springsteen nordico, in effetti, vediamo nient'altro che un irriducibile rocker, una canaglia da palco alla quale fatichiamo ad affibbiare l'etichetta del punk. Per cui lasciamolo perdere e concentriamoci su quelli che sono i veri gruppi punk islandesi...
Il rock non è abbastanza - I Þeyr, parte prima
Magnús Guðmundsson è un giovane cantante. Verso la fine degli anni Settanta, con un paio di suoi amici, ha un gruppo garage, i Fellibylur (Uragano). Dopo un po' si aggregano altri due personaggi: uno di questi è Sigtryggur Baldursson, batterista, che qualche anno dopo assurgerà a fama mondiale con gli Sugarcubes assieme a Bjork e ad altri personaggi che incontreremo nella nostra storia. Ad un certo punto le cose cominciano a farsi serie e Magnùs decide di cambiare il nome alla band in Þeyr, che vuol dire “vento” oppure “disgelo” in islandese arcaico; si pronuncia come their, in inglese, e anche in islandese significa loro ma solo al maschile. Nel gennaio del 1980 i Þeyr iniziano a registrare delle canzoni, ma Magnùs non è soddisfatto, qualcosa non va. Si accorge che il materiale che avevano, nonostante le aspettative, non è abbastanza innovativo. Così decidono così di piantare lì le registrazioni, accordandosi con lo studio di tornare a settembre con nuove idee. La sorte volle che, come già detto, il 21 giugno del 1980 passassero da Reykjavìk nientepopodimeno che i Clash in persona: ovviamente l'appuntamento è di quelli da non perdere perché i concerti di band straniere in Islanda non sono poi così frequenti. Tutti ci vanno. E Magnùs rimane fulminato dalla musica di Strummer e soci. Decide di dare una svolta netta alle sue canzoni: più distorsione, più effetti, più roba strana, basta con il rocchettino innocuo che puzza ancora di prog e anni Settanta. Il disco poi viene completato, forse un po' controvoglia, senza grande convinzione ed esce: Þagað í Hel (pensieri dall'inferno) – primo disco dei Þeyr – è però evidentemente avvolto da un alone di sfiga inarrestabile: una volta con le copie in mano la band si accorge che, causa di un problema tecnico nella riproduzione, se ne salvavano soltanto 500. E la sfiga non finirà qui. Dopo alcune buone recensioni sui giornali locali e il rapido sold-out del disco, l'anno dopo vanno a fuoco gli studi di registrazione dei Þeyr. Risultato: i master originali dell'album, che comprendevano anche alcuni inediti, vanno persi per sempre. A questo punto succedono casini e cambi di formazione a ripetizione. Ma ormai Magnùs ha avuto una visione ed è inarrestabile: la nuova musica è lì, chiara nella sua mente, sussurratagli dagli antichi spiriti che dormono nel ribollente sottosuolo della sua isola vulcanica.


Esoterismo, magia e tagli di capelli... - I Þeyr, parte seconda
Nel gennaio 1981 finalmente la band è pronta per un nuovo inizio: sono cambiati i chitarristi ma è rimasto, fortunatamente, il bravissimo Sigtryggur Baldursson alla batteria. Si suona a Reykjavìk, all'Hotel Saga (sì, è un albergo) e durante una pausa dello show, i nostri offrono tagli di capelli gratis agli astanti, ovviamente allibiti. E lì si capisce che i Þeyr hanno intrapreso un'altra strada, sicuramente stramba, molto esoterica. Si appassionano di testi teorici sull'oscurantismo e scrivono alcuni versi ispirati alla magia, come testimoniano le sonorità mistiche della title track di Mjötviður Mær (il saggio albero luminoso), il loro secondo disco che, leggenda vuole, sia fuoriuscito dopo un'estenuante lavoro di ben 140 ore in studio di registrazione. Quando si parla di un disco – parla Magnùs – sarebbe più corretto parlare di uno “stato d'animo”. Queste registrazioni sono il prodotto, la preservazione delle sensazioni e dello stato mentale della band in questi ultimi mesi. Che mesi meravigliosi sono stati! Siamo giunti alla consapevolezza che l'ascetismo arricchisce lo spirito, e questo spirito è stato registrato, inciso su vinile e uscirà il mese prossimo come il nostro secondo disco. Sempre che dio, e chi è in sua compagnia, lo desideri”.

Canzoni come “Current”, “2999” e “Iss” esemplificano bene la strada che prenderà la band di lì a poco: voci effettate, ritmiche ostinate, armonie storte, un alone futuristico di sinistro mistero. A causa del loro notevole videoclip “Rudolph”, dove provocatoriamente appaiono travestiti da gerarchi nazisti facendo il passo dell'oca, verranno accusati di essere degli eversivi di estrema destra. E l'uscita dell'ep dal titolo “Il Quarto Reich”, l'anno seguente, non potrà che naturalmente portare acqua al mulino dei contestatori: si tratta ovviamente di una presa in giro, anche perché utilizzare simboli provocatori come la svastica è una pratica ricorrente tra i gruppi punk islandesi cresciuti in una cultura intrisa di socialismo. I Þeyr hanno solo il merito (o la colpa) di spingere al massimo sull'acceleratore. Ad ogni modo il breve disco è davvero bello e consegnerà alla storia la band di Magnùs come un gruppo di culto, dedito ad un pop futuristico spigoloso, con voci distorte e una base ritmica ossessiva: una miscela veramente originale e prodotta con metodi all'avanguardia per l'epoca.

Scarica "The Fourth Reich" (1982) dei Þeyr




Il giocatore di scacchi addormentato - Einar Orn e i Purrkur Pillnikk
I Purrkur Pillnikk, ovvero “il giocatore di scacchi addormentato” – nome strepitoso per una punk band – sono un gruppo con Einar Örn Benediktsson alla voce e Bragi Ólafsson al basso, altri due che assieme alla cantante Bjork e al batterista Sigtryggur diventeranno famosi qualche anno dopo con gli Sugarcubes. Einar e Bragi saranno dei personaggi importanti per la scena punk islandese, come vedremo, anche perché con l'aiuto di alcune amiche e amici apriranno un'etichetta, poi diventata anche un negozio di dischi ancora oggi esistente, dal simpatico nome Smekkleysa (Cattivo gusto). I Purrkur Pillnikk sono dediti ad un punk rock sbrigativo ed arrabbiato: il loro primo disco, uscito nel 1981 e intitolato “Ekki enn” (non ancora), raffigura in copertina un individuo che brandisce sopra la sua testa una pecora. Sì, proprio una pecora. Il sound, benché piuttosto autarchico, risente dell'influenza del punk inglese: Einar, infatti, studia a Londra e, naturalmente, si sbatte per conoscere finalmente dal vivo la scena punk più figa di quegli anni. Stringe amicizia con i Flux of Pink Indians e con i Crass con i quali si trova talmente bene da invitarli a suonare a Reykjavìk. Loro, probabilmente un po' increduli, accettano: dobbiamo quindi proprio ad Einar l'organizzazione dello storico concerto islandese degli anarcopunk inglesi nel settembre del 1983. Ad ogni modo i Purrkur Pillnikk dureranno solo diciotto mesi, anche se molto intensi, come testimoniano i vari ep pubblicati e alcuni concerti tra Islanda e Inghilterra. Einar, d'altronde, pare davvero esagitato: a vederlo cantare, ballare e muoversi freneticamente come un ossesso nel solito imperdibile documentario “Rock in Reykjavìk” del 1982 (con addosso, tra l'altro, un giubbotto pesantissimo che lo fa sudare come un pazzo) si capisce come non gli piacesse esattamente stare fermo a far niente.

Scarica il disco "Ekki enn" dei Purrkur Pillnikk





Il punk vira verso la new-wave - Elly e i Q4U
E le ragazze punx? Anche loro, naturalmente, si danno da fare nella scena. Una delle più attive è Elínborg “Elly” Halldórsdóttir, cantante dei notevolissimi Q4U, band formata anche da Árni Daníel Júlíusson alle tastiere, già bassista dei Fræbbblarnir, le rane. Le sonorità dei Q4U si aggirano tra new-wave e dark, con la bella voce di Elly a piazzare melodie sulla precisa e scarna sezione ritmica. I Q4U pubblicheranno un disco, chiamato laconicamente Q1, e una cassetta intitolata “Skaf Í Dag” che significa qualcosa come “acquisti del giorno” o qualcosa di simile. Il loro materiale migliore sarà raccolto in Q4U 1980-1983 e appariranno anche loro nel solito “Rokk ì Reykjavìk”. Aneddoto simpatico: la band esiste ancora oggi ed Elly è diventata celebre in patria per essere stata nientepopodimenochè “giudice” nell'edizione islandese di X-Factor.

Scarica la raccolta delle Q4U "1980-1983"


Riot grrrlllsss! - Le Grylurnar
E veniamo alle Grylurnar, questa volta una band di sole ragazze. Ragnhildur Gìsladòttir, cantante-tastierista delle “ragazze grigliate” (così pare si debba tradurre il nome del gruppo), ci spiega: “Con questa band vogliamo dimostrare che anche le donne possono suonare e vorremmo che altre come noi facessero lo stesso. La cosa non deve rappresentare un problema o un'eccezione”. Con una semplicità disarmante, la bassista Herdìs Hallvarősdòttir aggiunge: “...fatti fare un prestito in banca, noleggia un garage, compra gli strumenti, butta tutto dentro e inizia. Impegnati e suona finché non esce qualcosa di buono. Alla fine tutto funzionerà. Ah, e mi raccomando...non piangere!”. Mi immagino già la faccia dell'impiegato di banca, di un paese qualsiasi che non sia l'Islanda, quando gli direte che volete diecimila euro per avviare la vostra band. Beh, seguite il consiglio di Herdìs e provateci...Operazioni bancarie a parte, le ragazze grigliate fanno uscire nel 1983 l'album “Mávastellið” (Gabbiano) che è davvero bello e originale.

Scarica il disco "Màvastellið" (1983) delle Grylurnar


O Reykjavìk - I Vonbrigði
I Vonbrigði (delusione) sono un gruppo che esemplifica bene la parabola della scena punk islandese, che da sonorità classiche stile inglese si sposterà verso il new-wave e il dark con canzoni sempre più sofisticate e ben prodotte. In effetti i Vonbrigði scrivono un primo disco omonimo, uscito nel 1982, con qualche canzone più strettamente punk e una buffa copertina spaziale, mentre già l'anno seguente esce “Kakofonia” che, a discapito del nome, è ben registrato e ci mostra una band che non ha nulla da invidare ai più blasonati colleghi mainstream. Beh, certo, qui sotto li vediamo dal vivo in una veste ancora un po' acerba: era il 1981...

Scarica "Kakofonia" (1983) dei Vonbrigði


Infanzia bruciata - Gli Sjàlfsfròun
Dei Sjàlfsfròun, ovvero "i masturbazione", non si sa molto ma quel poco che si sa, decisamente, rimane impresso. Sono un gruppo di giovanissimi punx strafatti e molesti di circa...dodici anni. Non esistono loro dischi ma compaiono nel solito “Rokk y Reykjavìk” mentre eseguono un paio di pezzi rovina hc molesti, suonati a caso, in un teatro della città, con la gente seduta e qualche loro compagno di classe che si agita convulsamente tra le prime file. Il cantante, Bjarni ƥòrir ƥòrőarsson, è un vero bambino punk, cattivo e sfrontato, anche se un po' confuso: si esibisce in un classico del rock, ovvero lo sfasciamento della chitarra, o del basso in questo caso. Porta avanti il numero con perizia, servendosi anche di una grossa scure per completare meglio l'opera. 



La sua intervista, che trascriviamo integralmente, è lo spaccato di un'infanzia drogata: più che un bambino islandese, Bjarni sembra provenire da qualche paese del terzo mondo. L'effetto è comico e drammatico allo stesso tempo: ”Sniffo, quando voglio un po' di droga. Cerco una stazione di benzina e chiamo qualcuno che compra la colla per me...a volte me la procuro da solo. E' impossibile trovare qualcuno che ti compri della colla a Kòpavogur [cittadina vicino Reykjavìk] perché la polizia te lo impedisce e poi chiama un tizio chiamato Hafsteinn che è dei servizi sociali. Hai più possibilità di comprarla in centro. Sniffare quella roba ti strafà, mentre sniffare benzina, il diluente, la colla dei pneumatici delle bici non fa lo stesso effetto. E' roba pericolosa ma mi piaceva sniffarla. Io sono quasi impazzito a causa di quella roba, ma ora ho chiuso. C'era un ragazzo che è impazzito davvero per quello. Se lo incontri e gli chiedi qualcosa, dà di matto e ti urla: “la colla, la maledetta colla!”. Perciò è in effetti abbastanza stupido sniffare quella roba. Alcuni sniffano il gas, se lo pompano direttamente in bocca. A me non piace, perché ti prende male, ha brutte conseguenze. Rimani confuso fino al giorno dopo. Ti vengono pure le allucinazioni, se usi il gas. Una volta stavamo sniffando il gas e uno di noi ha sentito qualcuno che gli correva negli occhi e dentro il suo stomaco: non riusciva a buttarlo fuori, stava impazzendo, si era preso male. Quando gli è passata, si è accorto che tutto derivava dalla sniffata. Una volta la polizia ci ha preso la roba. Avevamo preso della colla per i pneumatici delle biciclette e stavamo sniffandola in centro. Qualcuno deve averlo detto alla polizia e gli sbirri sono arrivati. Il ragazzo che aveva la colla è stato portato alla stazione di polizia e la colla ci è stata confiscata. La polizia non aveva il diritto di prenderci la colla, non avevano il diritto cazzo...Ad ogni modo, se rimani senza roba, colla e simili, e ti serve benzina, può essere difficile procurarsela se è tardi la notte. Puoi tentare di rubarla dalle auto parcheggiate e sniffartela...



E alla fine, vince il Partito migliore!
Siamo giunti alla fine del nostro breve viaggio nel punk della remota isola vulcanica dell'Islanda. Nonostante l'abbuffata di musica, copertine di dischi e testi tradotti con il traduttore automatico, rimane sempre difficile immaginarsi cosa volesse significare essere un punk in un posto così remoto. Un luogo dove lo stato, come nella migliore tradizione scandinava, si occupa di tutto e ti assicura un lavoro, una casa e la possibilità di farti una famiglia sin da giovanissimi. Uno Stato che non è certo lo stesso Stato, prepotente e ingrato, che azzerava i diritti del proletariato nell'Inghilterra dell'Era Thatcher tra la fine degli anni Settanta e l'inizio degli anni Ottanta. L'essere punk, in Islanda, doveva probabilmente significare il rifiuto della cultura bonariamente di sinistra nella quale si sono sempre identificati gli islandesi, il rifiuto della noia, delle convenzioni, di ciò che è prevedibile. La voglia di prendersi tutto, di andare oltre il limite di quel mare che isola da millenni quella terra gelida, spazzata dal vento. Terra nera, ribollente, senza alberi, dagli spazi brulli sterminati e circondata da lunghe scogliere frustate dalle onde.




Bjork, lungi dal rinnegare quegli anni, dirà: “Ci siamo divertiti come pazzi quando eravamo teenagers. Eravamo punk, ma punk positivi, non del tipo preso male che odia tutto ciò che ha intorno. Volevamo tutto e ce lo prendevamo...". E i punk, ad un certo punto, si sono davvero presi tutto: nel 2010, dopo il default dello stato islandese indebitatosi fino all'osso con le banche europee a causa della crisi finanziaria del 2008, a vincere le elezioni con quasi il 35% è stato il “Partito migliore” di Jòn Gnarr


Chi era costui? Un attore satirico, ma soprattutto un vecchio punk rocker attivo tra il 1980 e 1983 nei Nefrennsli (il naso che corre). Subito dopo la vittoria alle urne, il leader Jòn Gnarr ha dichiarato: “nessuno deve temere il nostro partito. Perché si tratta del partito migliore. Se così non fosse si chiamerebbe “Partito Peggiore”, o “Partito Pessimo” e noi non accetteremmo mai di lavorare in un partito del genere”. Applausi. Poi ha aggiunto: “il sistema politico del paese è segretamente corrotto, il mio partito promette di esserlo apertamente”. Altri applausi misti a risate. Sembra uno show televisivo, invece è il discorso di un primo ministro di un paese europeo che vanta nella sua squadra diversi ex-musicisti punk, tra cui l'immancabile Einar Orn. Il programma di governo? Asciugamani gratuiti in tutte le piscine della città, una Disneyland all'aeroporto di Reykjavìk e naturalmente la ferma volontà di non pagare un euro del debito pubblico alle banche private.

L'avventura politica del “partito migliore” si è chiusa nel 2014, quando Jòn Gnarr, probabilmente annoiato da tutti quegli impegni istituzionali, ha rifiutato il secondo mandato. Ma si sa, i punx sono “nati per essere veloci” e quattro anni di governo sono stati sin troppo lunghi...

24/08/17

[we talk about...famous artists!]
Tappi Tìkarrass & K.U.K.L. (punk in Islanda, parte I)
E per la nuova rubrica "famous artists play punk"occupiamoci di Björk Guðmundsdóttir in arte semplicemente “Björk”. La pluri-premiata artista islandese – in pochi forse lo sanno – ha pubblicato ben due dischi grazie alla Crass Records: già, l'etichetta della band anarchica inglese che tutti i veri punx venerano con diligenza! Nelle prossime righe vi racconteremo com'è stato possibile che Penny Rimbaud e compagnia abbiano visto in un gruppo di bei giovinotti islandesi di buona famiglia dei possibili eroi del post-punk...
I Kukl in tutto il loro splendore

Inquietudini di una giovane punk nordica
In verità il primo disco ufficiale di Björk è un album omonimo, uscito in vinile e cassetta nel 1977 quando la genietta di Reykjavìk non aveva ancora compiuto 12 anni. Si tratta di un disco prevalentemente di cover (dai Beatles a Stevie Wonder...), un buffo prodotto a metà tra lo Zecchino d'oro (famigerato concorso canoro per bambini) e un saggio scolastico di fine anno. In patria l'album ha un successo inaspettato e diventa un piccolo caso discografico. All'estero, ovviamente, zero. Insomma, la nostra giovanissima proto-punk parte subito a razzo: “ehi – sembra dire – la mia vita avrà a che fare con la musica!”. Nonostante il successo, la ragazzina prodigio vuole cambiare strada: basta con le cover, il prossimo disco sarà tutto di canzoni originali! I genitori la iscrivono a una scuola di musica: lei impara a suonare il pianoforte, coltiva la sua voce e inizia ad ascoltarsi voracemente tutta la roba nuova che riesce a trovare. Ma verso i quindici anni dice basta: come tutti gli adolescenti irrequieti che si rispettino, Björk è insofferente verso i dogmi accademici e manda letteralmente affanculo il suo professore: è stufa di ciucciarsi solo spartiti e musica classica! “Le accademie musicali servono principalmente a creare strumentisti per le orchestre. E' come essere su dei nastri trasportatori: entri di lì ed esci di là”. Boom: è la svolta punk! Da qui in poi suona in diversi gruppi, alcuni dalla vita brevissima: le Spit & Snot (una band di sole ragazze), gli Exodus e i Tappi Tìkarrass (tradotto dall'islandese dovrebbe suonare circa come “scorrevoli come un tappo nel culo di una puttana”, o qualcosa di simile...). Quest'ultimi  a dispetto del nome ehm un po' così  saranno il progetto più serio: consegneranno ai posteri un ep “Bítið Fast Í Vítið” (“azzannato nella tua mente”, 1982) e un album (“Miranda”, 1983), suonando qualche concerto dal vivo. Compaiono inoltre in ben due film: fanno una comparsata in una scena di “Nýtt líf” (una nuova vita) con la canzone “Sperglar” (asparagi) mentre le canzoni “Hrollur” (brividi) e “Dúkkulísur” (giochi di carte) sono inserite sul mitologico “Rokk í Reykjavík”, un notevolissimo documentario sulla scena punk islandese tra il 1981 e il 1982. Esistono alcuni buffi video dei loro concerti, ve ne mettiamo uno qui sotto particolarmente simpatico.




La vita non è abbastanza
Il rifiuto degli insegnamenti accademici rappresenta per la giovane Björk un momento fondamentale: lì capisce che occorre buttar fuori la propria creatività e lasciar perdere regole e disciplina imposti dall'alto. Immaginiamoci in effetti cosa potesse significare essere un'adolescente – certamente un po' fuori dalle righe – nell'Islanda a metà tra gli anni Settanta e Ottanta. La vita in mezzo al gelo della pur meravigliosa natura vulcanica doveva risultare monotona come un pezzo funeral-doom, o qualcosa di simile. Come tutti i paesi di cultura scandinava, anche gli islandesi sono molto legati alla musica: in un posto dove il gelo ti impone di passare molto tempo chiuso in casa, suonare uno strumento è un buon modo per non impazzire. Tuttavia all'epoca, i principali gruppi locali erano loffie coverband di band inglesi o americane. Insomma, niente di particolarmente ambizioso! Con l'avvento del punk, invece, cominciano finalmente a formarsi band che cantano in lingua autoctona, meno professionali ma molto più interessanti. “E' stata come un'esplosione – racconta Björk a proposito dei primi anni Ottanta a Reykjavìk – improvvisamente tutti suonavano in un gruppo”. Ma i contenuti politici del punk in in un posto come l'Islanda non potevano funzionare: come molte società scandinave con densità abitativa bassissima, non esistono disoccupazione e corruzione, i servizi funzionano a meraviglia e tendenzialmente tutti possono trovare un posto nella società.
Insomma, non ci si poteva certo lamentare del “sistema” come un qualunque proletario inglese sotto il governo Thatcher! Per questo motivo il contenuto ribelle si spostava verso la contestazione del predominio culturale anglo-americano, giudicato in qualche modo una forma di colonialismo, opponendovi le peculiarità della cultura autoctona. Nonostante questo, bisognava pur ascoltare i dischi del “nemico” anglosassone e, in un paese ficcato nell'estremo nord europeo, procurarsi i vinili giusti rimaneva difficile. Probabilmente per questo, nel 1986, una Björk poco più che ventenne aiuterà alcuni suoi amici ad aprire a Reykjavìk un negozio di dischi d'importazione: una soluzione ideale per potersi sparare nelle orecchie tutta la più recente produzione musicale dell'epoca. Il negozio, tra l'altro, si chiama “Smekkleysa” (cattivo gusto) ed esiste ancora oggi (vedi foto). Ma andiamo con ordine...

Il primo ep dei Tappi Tìkarrass (Bítið Fast Í Vítið, 1982) 
Esperimenti radiofonici per super-band performative
Il disco dei Tappi Tìkarrass “Miranda” era uscito per la piccola etichetta indipendente islandese Gramm Records, che tra il 1981 (data della sua nascita) e il 1988 (data del suo fallimento) pubblicherà circa una quarantina di dischi tra cui quelli di diverse punk band di Reykjavìk. La casa discografica era gestita da Ásmundur Jónsson ed Einar Örn Benediktsson (più semplicemente Einar Ørn), due personaggi molto attivi nella scena musicale islandese. Nell'agosto del 1983 Ásmundur propone di riunire in un super-gruppo i più esuberanti personaggi della scena punk locale per dare vita ad una performance collettiva in occasione dell'ultima puntata di un programma radiofonico al quale collaborava. L'idea piace un casino e vengono arruolati nell'ordine: Einar Ørn (trombettista nonché cantante dei “Purrkur Pillnikk”, il giocatore di scacchi addormentato), Einar Arnaldur Melax (tastierista e agitatore del gruppo surrealista d'avanguardia “Medusa”), Birgir Mogensen (bassista degli “Spilafífl”, i buffoni), Sigtryggur Baldursson e Guðlaugur Kristinn Óttarsson (rispettivamente batterista e chitarrista dei “Þeyr”, disgelo in islandese arcaico). E naturalmente Björk, che all'epoca cantava nei Tappi Tìkarrass. Due settimane chiusi in sala prove e la super band è pronta per la sua performance sotto il nome di Kukl (stregoneria). Lo spettacolo sonoro dura una ventina di minuti tra atmosfere free, momenti ombrosi e ossessivi, alternati a pezzi rock'n'roll e passaggi sghembi con la coppia di vocalist che recita, canta e strilla con grande esuberanza. In chiusura si riconosce “Söngull” (cantato), che l'anno seguente verrà rinominata “Dismembered” (smembrato) e rappresenterà il primo tassello del loro futuro disco. Infatti l'esperienza è così entusiasmante che i sei decidono di proseguire a fare musica assieme.

Gli "stregoneria" (Kukl)

Rapporti sul fronte londinese
Einar Ørn è un tipo in gamba. Si era iscritto da poco al Polytechnic of Central London (oggi veneranda Università di Westminister) per studiare qualcosa che ha a che fare con media e comunicazione. Per un ragazzotto islandese intraprendente e pieno di creatività, vivere diversi mesi all'anno a Londra doveva essere una vera manna: finalmente nel cuore pulsante della capitale del punk! Einar si dà da fare, frequenta i posti più marci e alternativi che riesce a trovare e fa amicizia con la gente più stramba e radicale del giro. Conosce i membri dei Flux of Pink Indians e dei Crass: con quest'ultimi si trova talmente bene che li invita subito a suonare in Islanda. E loro, forse un po' increduli, accettano. E' dunque proprio grazie al giovane islandese Einar Ørn che i leggendari anarcopunx inglesi potranno fare il loro storico concerto a Reykjavìk nel settembre del 1983. Inutile dire che i Kukl ovviamente suoneranno da spalla, assieme ai Vonbrigði, gli Icarus e i Egó, ovvero un estratto del miglior punk made in Iceland. L'evento è davvero significativo, se pensiamo che il collettivo-band inglese non suonerà mai fuori dall'Inghilterra dopo il 1979, ad eccezione appunto della data organizzatagli da Einar nella terra dei vulcani. La musica dei Kukl, solo un mese dopo la performance radiofonica, si è fatta più aggressiva e sofisticata: ci sono già in versione embrionale i pezzi che la band registrerà nel suo primo disco. Gli “stregoneria”, fedeli al loro nome, suonano un miscuglio pagano di post-punk in salsa dark, con sezioni ritmiche ossessive e oscure, atmosfere sabbatiche e strutture dei pezzi dilatate e mezze improvvisate. Björk ora partecipa con maggior trasporto, strilla e si agita, ed Einar è decisamente sopra le righe sia quando suona la tromba che quando canta e recita. Insomma, questo sestetto ha un sound decisamente scottante!

Stregoneria, punk e  morbosità
Penny Rimbaud dei Crass dovette rimanere folgorato dall'ipnotico magma sonoro e dalla furia esercitata sul palco dai sei ragazzi nordici. A sentire dai live in bootleg merdosamente registrati che si riescono a reperire, dal vivo dovevano essere un attacco sonoro piuttosto estremo, anche se probabilmente non nei termini propriamente punk di oggi. “I Kukl venivano definiti “prog-punk” - racconta Björk - e, in effetti, la loro musica era più complessa di quella di gran parte dei gruppi punk. Non scrivevamo nulla in 4/4 né usavamo accordi in maggiore, perché ci sembrava troppo facile. Durante i live Einar si avvolgeva il microfono attorno al collo e lo tirava fino a svenire. Oppure saltava in mezzo al pubblico e si spaccava le ossa. Ancora oggi, incontro gente che si ricorda i Kukl come un'esperienza religiosa. Oppure come lo spettacolo peggiore che avesse mai visto”. Qualche scambio epistolare e nel 1984 esce “The eye”, il primo vero full-lenght dei Kukl, registrato e prodotto a Londra da Penny Rimbaud in persona proprio per la Crass Records. Il disco – davvero notevole – è piuttosto anomalo rispetto alla consueta produzione post-punk dell'epoca ed è ispirato alla sordida storia di sesso e voyeurismo tra adolescenti raccontata da George Bataille nel suo libro “Story of the Eye” (1928), con il quale la giovane Björk era in fissa da qualche tempo. Di “Anna” e “Dismembered”, le canzoni probabilmente più accessibili del disco, vengono girati dei video.
Nei due anni che seguono, i Kukl suoneranno spesso fuori dall'Islanda (esistono registrazioni rovina dei concerti a Parigi e Manchester) e nel 1985 partono per un tour europeo che si rivelerà importante anche dal punto di vista creativo, visto che il secondo disco uscito l'anno seguente si intitola “Holidays in Europe (the Naughy naught)”. Rispetto alla compattezza di “The Eye”, si tratta di un lavoro più ragionato ma anche più spigoloso e meno accessibile. Si tratta comunque di un disco interessante, con una copertina che piacerebbe molto a certi artisti punx di oggi. Aneddoto simpatico: nel 1986 i Kukl sono stati protagonisti di una comparsata sulla televisione islandese, un concerto di circa venti minuti in una scenografia appositamente preparata. Björk, all'età di ventun'anni, sfoggia con notevole nonchalance la sua gravidanza mentre balla e canta. “Ero a una festa a casa di mia nonna – racconta il batterista Sigtryggur Baldursson – quando è andato in onda il nostro live in televisione. Björk aveva ventun anni ma ne avrà dimostrati a malapena quattordici e tutti rimasero disgustati: mio dio, una bambina incinta!”. Non si trattava di un trucco: Sindri nascerà l'8 giugno dello stesso anno, con mamma Björk e papà Þór Eldon, chitarrista dei futuri Sugarcubes. Ma questa è un'altra storia...

Bjork racconta di quando mandò affanculo il suo maestro d'accademia
all'età di 15 anni ("I've showed him the big finger") 
Ciò che resta del punk
A giudicare dal pop elettronico di “Debut” (1993), il disco di esordio della carriera mainstream di Björk, e dai raffinati lavori successivi, caratterizzati da beat sintetici ed eleganti arrangiamenti d'archi, non sembra essere rimasto molto della furia punk degli esordi. Forse soltanto un certo modo di "spingere" la voce senza preoccuparsi di "uscire" dalle righe, che poi è uno dei segreti del suo successo. Un giorno parlando con Steffo, il nostro attuale batterista, ne discutemmo: era partita dall'autoradio “Where is the line”, un gran pezzo tratto dall'album “Medulla” (2004). Io (Sarta) stavo elogiando i contenuti sperimentali dell'arrangiamento (c'entra un tal Mike Patton...) e il bel testo (“Dove sta il limite con te?” continua a ripetere Björk, “dove sta il limite con te” stramaledetto fattone che non sei altro?), dicendo che la Nostra era probabilmente una delle poche persone veramente capaci di conciliare pop, star-system e ricerca musicale. Insomma, per me Björk è una tosta. Steffo, invece, sembrava molto tiepidino: “mah, per fare musica mica ci vogliono tutti 'sti frizzi e lazzi”. Ehm...A ben vedere è curioso che, nonostante il successo planetario, l'artista islandese non abbia mai voluto firmare per una major. Sino ad oggi tutti i suoi lavori sono usciti per la One Little Indian, l'etichetta gestita dal bassista dei Flux of Pink Indians. Certo, oggi l'etichetta (immaginiamo proprio grazie alle vendite di Björk) non è più quella piccola aziendina DIY che era un tempo, tuttavia si tratta pur sempre di una label ancora indipendente dai grandi colossi del music business.

Rissa in Thailandia
Curiosità finale: nel corso degli anni, pur imbrigliata dalle necessità mediatiche, la nostra eroina islandese deve aver conservato un po' dello spirito da “bad girl” degli esordi. Nel 1996, appena scesa da un volo diretto in Thailandia, in compagnia del figlio di dieci anni, senza nessun preavviso, letteralmente legna di mazzate una giornalista americana rea di averle semplicemente rotto un po' troppo le scatole. Una reazione ovviamente spropositata, uno sbrocco dovuto probabilmente alla stanchezza ma che comunque denota una certa dose di spontaneità. La cosa (per noi) molto divertente è che non le tira semplicemente una spinta, o una manata, per mandarla via: no, no, proprio la riempie di pizze in faccia! Il video è ovviamente stato mandato in tutte le tv per mesi, diventando un caso mediatico clamoroso. Telegiornali e talk show ovviamente ci vanno a nozze, condannando unilateralmente il gesto. Ma Björk, evidentemente, non è una starlette di cartapesta, se ne frega e tira dritto. Si inventa una mega-palla sull'istinto materno e la voglia di proteggere il figlioletto dalla “brutalità” dei media (giusto per compiacere il pubblico perbenista americano), mentre su una tv inglese sfotte clamorosamente la giornalista per la stupidità delle sue domande, fregandosene altamente delle esigenze del politicamente corretto. Ed eccola qui ancora oggi con un nuovo disco in canna, a cinquant'anni suonati...



24/07/17

[We talk about...famous artists!]
Robert Wyatt!
"Oggi parliamo di Robert Wyatt! Chi è costui - direte voi punx abituati a viaggiare sulle frequenze della rovina hc più spinta - ? Non un punk ubriaco, mi dispiace, anche se ci da dentro anche lui, ma di uno dei più importanti e influenti musicisti del secolo scorso e di questo scorcio di fottutissimo terzo millennio. Cosa ci fa un pluri-acclamato musicista, ampiamente sdoganato dalla critica mondiale, sul blog dei Kalashnikov collective? Adesso vi spiego...
Robert nasce nel 1945 a Bristol, in Inghilterra: l'anno giusto per essere giovane e radioso nei favolosi anni Sessanta e ciucciarsi il meglio della beat generation e della psichedelia. Il Nostro, naturalmente si strippa subito con la musica: impara a suonare il pianoforte e si appassiona al jazz. Dirà tempo dopo: “Non posso definirmi un vero musicista jazz: sono piuttosto un turista del jazz, che vaga in questo meraviglioso mondo con la bocca spalancata. Questo perché purtroppo non sono un americano nero nato ad Harlem ma un inglese”.


Giovinezza hippy, suicidi tentati e l'iscrizione al partito comunista inglese...
Inizia a viaggiare e a conoscere gente, amici, musicisti: passa dieci mesi – definiti uno dei periodi più belli della sua vita – sull'isola di Maiorca assieme ad una comunità di poeti, artisti e scoppiati. Giornate piene di cazzeggio in cui si suona la batteria, si fanno sculture, si scrivono versi surrealisti. Non che fosse una persona tranquilla, il buon Robert: qualche mese prima aveva tentato il suicidio ingerendo un mix di barbiturici, nella camera dell'amico Daevid Allen, a Canterbury. Di indole malinconica ma, a modo suo, dotato di forte personalità, Robert capisce che le convenzioni sociali sono un limite per la propria crescita e che bisogna imparare a sbattersene, iniziando un percorso esistenziale di liberazione. Come vedete, non si tratta della classica vicenda della rockstar a caccia di successo!
Schiacciamo il tasto fast-forward e andiamo avanti nella storia: nei primi anni Settanta Robert ha già fatto un sacco di cose interessanti. Ha scritto tre dischi con i Soft Machine – gruppo seminale della scena prog di Canterbury – dove suona la batteria e canta, facendo concerti assieme a gente del calibro di Pink Floyd e Jimi Hendrix Experience. Ha composto il suo primo disco solista, lo stripposissimo “The End of an Ear” (1970), capolavoro di improvvisazioni free e sperimentalismo strumentale, dal titolo memorabile e pretenzioso, dove Robert canta utilizzando vocalizzi senza il ricorso alle parole. Se n'è poi andato dai Soft Machine e ha fondato i Matching Mole (gli “incontro tra talpe”: il suono delle due parole è un fine sfottò del suo precedente gruppo, se pronunciato alla francese, “Machine Molle”), con i quali inizia ad esplicitare in maniera netta il suo impegno politico. Sì, perché il Nostro è un compagno, di quelli determinati e duri, anche se i suoi testi non sono mai troppo espliciti: alle dichiarazioni solenni preferisce il surrealismo e il non-sense (“Possiamo berci via la nostra politica, a partire dal mezzogiorno, possiamo berci via lontano la nostra politica”). La copertina del secondo disco dei Matching Mole “Little Red Record”, però, è chiara come più non si potrebbe: loro quattro in posa da guerriglieri comunisti, con tanto di mitragliatore, bandiera e libretto rosso, il tutto in uno stile da dipinto di propaganda maoista.
Il volo
Il giovane Robert non dev'essere un tipo facile, tutt'altro: beve, fuma marjuana, è uno tosto. Il primo di giugno del 1973 è a Londra, alla festa di compleanno di alcune amiche (Gilli Smyth dei Gong e la musicista e pittrice Lady June). Al calar della notte, è completamente fatto. Ubriaco fradicio, ciondola e cade dalla finestra. Fa un volo di tre piani e si schianta al suolo. Risultato: rimane paralizzato dalla vita in giù. Non certo il massimo per uno dei migliori batteristi in circolazione. Carriera finita? Niente affatto. A proposito dell'incidente, il medico che gli presterà soccorso, racconta che rimase stupefatto: “Doveva essere proprio ubriaco per rimanere così rilassato mentre cadeva dal terzo piano”. “La cosa – ricorda ironico lo stesso Wyatt – andò così: nell'ordine, vino, whysky, southern comfort e poi la finestra. Se fossi stato appena un po' più sobrio probabilmente oggi non sarei qui: avrei teso tutto il corpo per la paura e quindi mi sarei fracassato”. L'alcool, quindi, gli causa questo incredibile incidente, ma, nello stesso istante, gli salva anche la vita. Curiosità astrale: tre anni prima Robert era diventato molto famoso per la canzone “Moon in June”, nell'album “Third” dei Soft Machine, una lunga suite composta interamente da lui nella quale sperimentava delicate atmosfere free. Quella stessa luna di giugno, invocata nella canzone, assistette impassibile al suo lungo volo dalla finestra.

Rock basso
Inizia un periodo di lunghe cure in ospedale. Gli amici Pink Floyd, diventati dopo “The Dark Side of the Moon” tra le band più famose del pianeta, organizzano un doppio concerto a Londra per aiutarlo con le ingenti spese mediche. Lo sconforto si fa strada, ma Robert ha una creatività e un'ironia dirompenti e, in qualche modo, capisce che questo incidente non rappresenta una fine, ma un nuovo inizio. Ma cosa può fare un batterista che rimane mezzo paralizzato? Niente più tradizionale drumset, via la grancassa e il charleston. D'ora in poi ci si mette sotto con le tastiere, le percussioni, la tromba e, ovviamente, la voce. E' da questa storia che nasce uno dei dischi più belli e struggenti di sempre, “Rock Bottom”. “Rock Bottom” è un'espressione inglese che significa più o meno “toccare il fondo” ma per Wyatt è anche un gioco di parole, letteralmente “rock basso”, “sottotono”. Un rovesciamento della consueta iconografia della rockstar tutta eccessi e impatto mediatico. Il disco è intriso di atmosfere intimiste e malinconiche, espressione di un animo inevitabilmente afflitto ma anche pervaso da un lirismo e da una poesia surreali senza precedenti. In apertura c'è “Seasong”, una splendida canzone d'amore: Wyatt, rivolgendosi ad una “lei” sembra essere un pesce rosso che osserva il mondo chiuso nella sua palla di vetro, sciorina espressioni tratte dal mondo marino e sembra interrogarsi su questa strana creatura, amabile ma in qualche modo ferina, parte di un mondo “altro” e sconosciuto (“Sei un animale stagionale come la stella marina che si lascia trascinare dalla marea”). Ma chiude con un “we're not alone” dal quale trapelano speranza e futuro. E chi è dunque questa creatura bellissima e misteriosa?

Alfie
Alfreda Benge, detta Alfie, è una poetessa e illustratrice austriaca, di cinque anni più grande di Robert. Di madre polacca, si trasferisce in Inghilterra a soli sette anni. I due si conoscono e s'innamorano. E la loro relazione sentimentale si intreccia con la loro carriera artistica: Alfie è una delicatissima poetessa, ama i giochi di parole esattamente come Robert, dipinge quadri dai colori accesi e dai soggetti surreali. Quando lei viene chiamata nel 1972 a lavorare a Venezia come assistente a un film horror, lui la segue, ma una volta arrivato nella camera d'albergo non sa che cazzo fare ed inizia ad annoiarsi a morte. Alfie allora, durante una pausa sul set e con i pochi soldi che ha in tasca, va in un negozio di strumenti musicali trovato per caso e gli regala una tastierina giocattolo, con la quale finalmente Robert può stripparsi: nascono così le prime bozze di “Rock Bottom”, che uscirà due anni dopo. Dopo l'incidente di Londra, Alfie si prenderà cura di Robert e i due rimarranno assieme per tutta la vita, sino ad oggi, continuando ad aiutarsi nelle reciproche carriere artistiche e nell'impegno politico.

Repressione dura, ma niente ci potrà fermare!
Già, la politica! Nel 1979 viene eletta Margaret Thatcher ed un comunista marxista convinto come Robert non può che preoccuparsi: niente più stato sociale, niente più diritti dei lavoratori, la “signora di ferro” se ne sbatte e pesta duro sulla base. Allora Robert e Alfie capiscono che bisogna darsi da fare con quello che sanno fare meglio. Lui, inchiodato sulla sua sedia a rotelle, crea colonne sonore per film animalisti, scrive canzoni di protesta (la sentita “Amber and the Aberlines” dove si canta “nessuno vince se si combatte da soli”) e partecipa a concerti a supporto degli scioperi contro le politiche della Thatcher. Lei, invece, è attiva in favore dei diritti delle minoranze, partecipa a iniziative e manifestazioni, scrive volantini e gli yuppies del quartiere dove vive cominciano a non vederla di buon occhio. Giusto per rendere un'idea del clima, durante un presidio contro l'apartheid, Alfie si sentirà dire da un vicino: “abbiamo pagato così tanti soldi per venire in questo bel quartiere, non vogliamo vedere queste cose!”. E' del 1982 il disco “Nothing can stop us”, una compilation di canzoni di protesta interamente rivisitate da Wyatt: la copertina, molto simpatica, raffigura il cofano di una vecchia Rolls Royce dove al posto del marchio compare l'immagine di un operaio con tanto di tuta e chiave inglese alzata verso il cielo. Rispetto a tante operazioni speculative alle quali il lurido music businness ci ha ormai abituati, questa rimane una delle più sincere e sentite di sempre, con la voce di Robert a testimoniare la schietta partecipazione alle lotte in quegli anni di dura repressione.

Il "Wyattofono" e fade out
Come avete sin qui visto, Robert Wyatt non è certo il tipico musicista plasmato dallo starsystem, né un intellettuale accademico un po' snob figlio della cultura radical-chic, ma anzi è un buon compagno che ha cercato di portare qualcosa di buono in questo cesso di mondo. Ecco perché ne abbiamo parlato! Inoltre, lungi dall'essere ricchi e viziati, lui ed Alfie hanno spesso avuto problemi di soldi e si sono dovuti trasferire più di una volta per far fronte alle spese di affitto, nonostante Robert fosse diventato quasi subito un musicista affermato. Tra le tante collaborazioni realizzate nell'arco degli anni merita una menzione quella con Björk, la pluri-premiata genietta islandese che iniziò il suo percorso con il punk, o con qualcosa di simile (ma questa è un'altra storia, e ve la racconteremo più avanti...). Da questo incontro è nato il Wyattron, ovvero il “Wyattofono”: “questa ragazza è venuta a trovarmi – racconta Robert – ed è stata pazientemente a registrare la mia voce. Ha preso ogni nota che io avessi: tutte, dalla più grave alla più acuta”. Björk ha realizzato così una sorta di tastiera contenente i campioni di voce di Wyatt, con la quale ha realizzato anche degli arrangiamenti contenuti nella famosa “Submarine” dall'album “Medulla” del 2004".

15/07/17

[We talk about...free books for punx!]
"Mosca - Petuski" alias "Mosca sulla vodka"
"Oggi parliamo di capolavori. Un giorno Denis, il capitano-driver che ci ha scarrozzato in lungo e in largo nei nostri tour russi (e non solo), ci dice: "ehi, c'è questo libro, dateci un'occhiata, credo ne esista un'edizione italiana. E' il mio preferito di sempre!". Scopriamo che si tratta di un samizdat, ovvero di un libro clandestino circolato segretamente durante i decadenti anni dell'Unione Sovietica di Breznev, quando tutto andava a scatafascio e se ti permettevi di obiettare qualcosa finivi a lavorare in un gulag a 50 gradi sottozero. Un samizdat, dunque? Uh, la cosa iniziava a farsi interessante! Nonostante la sua natura underground, il libro – intitolato “Mosca-Petuski” – ebbe un grande successo durante gli anni Settanta, tanto da richiamare l'attenzione di qualche editore straniero che si prese la briga di tradurlo e di pubblicarlo: il primo fu, curiosamente, in Israele nel 1973, al quale seguì la Francia e l'Italia che nel 1977 ne cambiò il titolo nel più triviale “Mosca sulla vodka”. Il motivo per cui il racconto di cui stiamo parlando non è mai stato stampato dall'editoria sovietica ufficiale è, ovviamente, comprensibile: diciamo che non si tratta esattamente di un'apologia dell'URSS. Ma – ordunque – di che cosa parla questo libro?

Una sbronza perenne
Venedikt Erofeev (1938-1990) – questo è il nome dell'autore del libro in questione – fu uno scrittore e anche (e soprattutto) un accanito bevitore. Il racconto ha come protagonista lui stesso ed è strutturato come una sorta di flusso di coscienza in prima persona, che descrive il nostro Venja (nomignolo di Venedikt) attraversare Mosca fino alla stazione di Kursk per salire sul treno che lo porterà alla cittadina di Petuski, distante circa 150 kilometri, per incontrare la sua amata. Naturalmente però, nulla va come previsto. O meglio: Venja, oltre ad essere una persona colta e raffinata – come ben traspare dai numerosi soliloqui che compaiono nel racconto – è anche un alcolizzato senza ritorno. Non un bevitore qualunque, signori miei: un fiero e orgoglioso bevitore che fa del bere uno stile di vita, una poetica sovversiva, un modo rivoluzionario di concepire l'ebbrezza che comporta un assoluto cambio di prospettiva sull'esistente. E difatti la narrazione diventa presto il racconto onirico di una sbronza colossale. Ce la farà il nostro eroe a raggiungere Petuski e ricongiungersi con la sua amata?

Il tratto Mosca - Petuski
Satira sociale in salsa alcolica
Il viaggio in treno è dunque solo un pretesto per parlare della vita e della società sovietica. In verità “Mosca – Petuski” è un racconto ironico, ricco di iperboli e paradossi, che trasforma un reietto senza speranza in un eroe tragico. Nell'apparente semplicità di un viaggio che avrebbe dovuto durare un paio d'ore, la dimensione onirica travolge la realtà, i piani di ciò che è serio e ciò che è burla si capovolgono, fino alle drammatiche pagine conclusive, dove si consuma un colpo di scena tragico e beffardo. Il protagonista del racconto è un vittima di una realtà crudele e spietata, dove non c'è posto per chi sa di essere un outsider. Gli aneddoti che si potrebbero riportare – colmi di citazioni dei “mostri sacri” della cultura russa – sono molti e spassosi. Ve ne raccontiamo giusto un paio...

Venedikt Erofeev al lavoro
Il lavoro rende liberi: i “grafici individuali
Ad un certo punto si parla di lavoro e scopriamo che Venja era un ispettore dei cavi telefonici presso l'aeroporto di Mosca. Le giornate lavorative nell'URSS degli anni Sessanta vengono descritte così: “[...] Il nostro processo produttivo – scrive Erofeev – si presentava nel seguente modo: al mattino, appena arrivati, ci mettevamo seduti a giocare a sika [un gioco di dadi], a soldi (voi sapete giocare a sika?). Bene. Poi ci alzavamo, srotolavamo il tamburo col cavo e mettevamo il cavo sotto terra. E poi, si sa: ci sedevamo e ciascuno ammazzava il tempo a modo suo, giacché in fondo ognuno ha il suo carattere e il suo sogno: uno beveva vermut; un altro, più alla buona, beveva acqua di colonia "Frescura", mentre chi aveva pretese, beveva cognac all'aeroporto internazionale di Seremet'evo. E poi si andava a letto. E il mattino dopo, cosi: prima ci sedevamo e bevevamo vermut. Poi ci alzavamo e tiravamo fuori dalla terra il cavo del giorno prima, perché naturalmente era tutto umido. E poi - che dire? - poi ci sedevamo a giocare a sika a soldi. E si andava a letto senza riuscire a terminare la partita. Il mattino presto già ci svegliavamo a vicenda: "Lecha! Alzati, che si deve giocare a sika!", "Stasik, alzati per finire la partita di ieri a sika!". Ci alzavamo e finivamo la partita a sika. E poi, senza indugi, senz'aver bevuto né "Frescura", né vermut, davamo di piglio al tamburo col cavo e cominciavamo a srotolarlo affinché l'indomani fosse fradicio e inutilizzabile. E soltanto dopo di questo, ognuno si sentiva libero di fare quel che gli pareva, perché ognuno ha i suoi ideali. E cosi tutto daccapo”. 
Quando Venja diventa “brigadiere”, ovvero responsabile della sua unità di lavoro, introduce una novità, i “grafici individuali”: “dirvi che razza di grafici fossero? – scrive ancora il Nostro – Bene, è molto semplice: con inchiostro di china si tracciano su carta velina due assi: una orizzontale e l'altra verticale. Su quella orizzontale si segnano per ordine tutte le giornate lavorative del mese trascorso e su quella verticale si indica in grammi la quantità di quanto s'è bevuto, ma tradotto in alcool puro. Naturalmente si teneva conto soltanto di quanto si era bevuto sul lavoro e prima di esso, in quanto ciò che si beve la sera costituisce una quantità più o meno costante per tutti e non può presentare interesse per uno studioso serio. E cosi, allo scadere del mese, il lavoratore mi si presentava con il suo rendiconto: il tale giorno ho bevuto questo o quello e in questa o quella quantità, il tal'altro giorno ho bevuto, ecc. E io traducevo tutto questo in un bel diagramma con inchiostro di china su carta velina”. Naturalmente si tratta di “grafici” alternativi a quelli ufficiali. Ma Venja – con un'ironia e un gusto per il paradosso tipicamente russi – capisce che attraverso la conoscenza del “ritmo alcolico” di ciascuno si riesce a conoscere molto più da vicino le esigenze dei lavoratori. Accade però, a causa di una giornata dove si è esagerato col tazzare, di confondersi e spedire ai responsabili del Partito i grafici “alcolici” anziché quelli veri. Risultato: Venja viene licenziato.
Da sinistra a destra, i "grafici individuali" del giovane comunista VIktor Totoskin, della vecchia canaglia sconquassata Aleksej Blindjaev e di Venedikt Erofeev
I controllori! I controllori!
Può un racconto ambientato su un treno fare a meno della figura del controllore? Ovviamente no! Solo che in Mosca sulla Vodka il personaggio del controllore Semënič è naturalmente biecamente corrotto e dedito all'alcolismo (come tutti, in realtà). “A dire il vero, sulla linea di Petuski nessuno ha paura dei controllori, perché tutti sono senza biglietto. Se qualche rinnegato fa il biglietto perché magari è in preda a una sbornia, lui sì che si trova a disagio quando passano i controllori. Quando un controllore gli chiede il biglietto, lui non guarda nessuno: né il controllore stesso, né il pubblico, ma è come se volesse sprofondare sotto terra. E il controllore esamina il suo biglietto in una certa maniera schifata e lo guarda in modo da annientarlo, come se fosse un rettile. E il pubblico, il pubblico guarda il "furbo" con degli occhi grandi e belli, come per dire: "Abbassa lo sguardo, razza di coglione! Ti rodeva la coscienza, eh?". Ma prima dell'arrivo del controllore Semënič la vita per i passeggeri era molto più dura: “Prima che Semënič diventasse capo-controllore, tutto andava diversamente: in quei giorni i passeggeri senza biglietto venivano chiusi come gli indiani nelle riserve, gli picchiavano in testa con i tomi dell'enciclopedia Efron & Brockhaus, e poi li multavano e li scaraventavano fuori della vettura. In quei giorni, fuggendo il controllore, essi correvano attraverso i vagoni come armenti in preda al panico, trascinando con sé anche quelli che avevano il biglietto. Una volta, sotto i miei occhi, due piccoli ragazzini, abbandonandosi al panico generale, corsero insieme al gregge e furono schiacciati a morte. E restarono così, riversi nel corridoio, stringendo nelle manine bluastre i loro biglietti...”. L'aneddoto terribile dell'uccisione di due bambini viene buttato lì così, come se fosse una cosa di frequenza comune, un particolare di poco conto. 
Ma poi, per fortuna, arriva Semënič, e le cose cambiano...in meglio! “Il capo controllore Semënič ha cambiato tutto: ha abolito le multe e le riserve. Ha regolato tutto in modo più semplice, esigendo da ogni viaggiatore senza biglietto un grammo di vodka per chilometro. In tutta la Russia gli autisti chiedono una copeca a chilometro, mentre Semënič chiedeva una volta e mezza di meno: un grammo a chilometro. Se, per esempio, tu vai da Cuchlinka a Usad, una distanza di novanta chilometri, devi versare a Semënič novanta grammi di vodka e poi viaggi assolutamente tranquillo, sbracato sul tuo sedile come un bottegaio...”. Geniale no? Immaginatevi se funzionasse così anche oggi in Italia: la figura del controllore, da bieco sbirro diventerebbe un simpatico compagno di sbronze, pronto a portare allegria ad ogni sua comparsa. “E così l'innovazione di Semënič ha rafforzato il legame tra il controllore e le larghe masse, ha diminuito il costo di questo legame, l'ha semplificato e umanizzato...E ora nel fremito generale suscitato dal grido “i controllori!" non c'è più nessuna paura. In questo fremito c'è soltanto un'anticipazione...”. Ed, infine, ecco che il personaggio entra finalmente in scena: “Semënič entrò nella vettura, sorridendo in modo sensuale. Già si reggeva a malapena sulle gambe, perché di solito restava sul treno soltanto fino a Orechovo-Zuevo, dove scende va e se ne andava nel suo ufficio, sbronzo da vomitare..."Di nuovo tu, Mitrič? Daccapo a Orechovo? A fare un giro sulla giostra? Cent'ottanta fra tutt'e due. Ah, sei tu, Nero baffuto? Saltykovskaja-Orechova Zuevo? Settanta due grammi. Svegliatemi questa puttana e domandate quanto deve. E tu, covert-coat, di dove vieni e dove vai? Serp-i-Molot-Pokrov? Centocinque, per favore. I 'portoghesi' sono sempre di meno. Una volta ciò suscitava 'ira e sdegno' mentre oggi suscita 'legittimo orgoglio'... E tu, Venja? ..." e Semënič m'investì in maniera sanguinaria col suo alito fetente d'alcool: "e tu, Venja? Come sempre Mosca-Petuski? ..."

Effetti del "Balsamo di Canaan"
Cocktails creativi
Il Nostro, da buon bevitore, è naturalmente un esperto di cocktails. Ma dimenticatevi i vari spriz, negroni, mojito, caipirinha...tutta roba da fighetti occidentali! Qui si parla invece di roba seria, orgogliosamente proletaria. Sentite qua: “In breve, scrivetevi la ricetta del "Balsamo di Canaan". La vita è concessa all'uomo una volta sola e bisogna viverla in modo da non sbagliare le ricette: 

Alcool denaturato 100 g
Birra vellutata 200 g
Vernice purificata 100 g

Ed ecco che avete davanti a voi il "Balsamo di Canaan" (detto familiarmente "volpe bruna"), un liquido che ha effettivamente un colore nero-brunastro, moderatamente forte e con un aroma robusto. Non si tratta nemmeno d'un aroma, ma di un inno. L'inno della gioventù democratica. Proprio così, giacché in chi beve questo cocktail maturano appieno le “forze oscure” e la volgarità”. In Unione Sovietica, come ancora oggi in posti dove l'alcolismo è la norma, siccome non è facile reperire superalcolici che non siano la vodka, si usava davvero fare dei cocktails con profumi e prodotti per l'igiene. Mosca sulla Vodka è un racconto dai toni iperbolici, ma c'è sempre del vero in ciò che scrive Venedikt Erofeev. Che subito dopo ci illustra gli effetti sull'umore e sulla nostra psiche di alcune sostanze di uso comune: “il "Mughetto," per esempio, eccita l'intelligenza, allarma la coscienza, rafforza la coscienza del diritto. Il "Lillà bianco" al contrario, tranquillizza la coscienza e concilia l'uomo con le piaghe dell'esistenza … A me è successo così: bevo un intero flacone di “Mughetto argentato”, me ne sto lì e piango. Perché piangevo? Perché mi ricordavo di mia mamma, cioè me ne ricordavo e non potevo dimenticarla. “Mamma” dicevo. E poi di nuovo: “Mamma” e di nuovo piangevo. Un altro, più stupido, sarebbe rimasto li a piangere. E io invece? Io ho preso un flacone di “Lillà” e me lo sono bevuto. E che cosa credete? Le lacrime si sono asciugate, un riso idiota mi ha assalito e anche la mamma l'ho dimenticata a tal punto che non sapevo più come si chiamava”. 
Alcuni prodotti del perfetto barman
Ed infine, vi lasciamo con la chicca finale: “ma lasciamo stare la “Lacrima”. Adesso vi propongo il dulcis in fundo. “Il serto delle fatiche è superiore a ogni compenso” disse il poeta. In breve, io vi propongo il cocktail “Trippa di cane” una bevanda che oscura tutto il resto. Non si tratta neanche più d'una bevanda, ma d 'una musica delle sfere celesti. Che cosa c'è di più bello al mondo? La lotta per la liberazione dell'umanità. E di più bello ancora? Ecco, scrivete:

Shampoo "Sadko ospite di lusso” 30 g
Birra di Zigulì 100 g
Soluzione antiforfora 70 g
Deodorante per piedi 30 g
Antiparassitario 20g

Tutto ciò si lascia macerare per una settimana con tabacco di sigari; quindi si serva in tavola...A proposito, mi sono giunte lettere in cui oziosi lettori mi consigliano inoltre di filtrare l'infuso cosi ottenuto con un passino. Ossia, di filtrarlo con un passino e poi di andare a letto... Ma lo sa il diavolo che roba è questa e tutte queste aggiunte e correttivi provengono da fiacchezza d'immaginazione, da insufficienze del volo del pensiero; ecco di dove vengono questi assurdi correttivi ... E dunque, la “Trippa di cane” è in tavola. Bevetela non appena appare la prima stella, a grandi sorsi. Già dopo due bicchieri di questo cocktail un uomo diventa così spiritualizzato, che ci si può far da presso e per un'intera mezz'ora sputargli sul grugno da una distanza d'un metro e mezzo senza che lui ti dica niente”.