30/05/12

[Free music for punx]
"Tra migliaia di disgrazie, ne ho scelta una: sono nato in U.R.S.S.! Sono nato in U.R.S.S.!". La New Wave sovietica degli anni '80!
[Puj] Certo che è esistita una New Wave russa! Si chiamava Tusovka, parola in slang che, più o meno, significa "gran casino". Fu lo specchio di un'epoca di stravolgimenti politici e sociali (gli anni '80), che, secondo i calcoli di alcuni, avrebbero dovuto portare alla modernizzazione dello stato e della società sovietica, ma, nella realtà, altro non fecero che condurre il sistema socialista allo sfascio. Gli anni '80 furono il primo periodo autenticamente creativo per il rock sovietico, che per tutti gli anni precedenti si era limitato a replicare pedissequamente lo stile dei gruppi occidentali. In effetti, le poche rock-band che suonavano in Russia tra gli anni '60 e i '70 avevano un repertorio costituito prevalentemente da cover, che cercavano di eseguire il più fedelmente possibile. Tutto questo trova senso se si pensa che all'epoca non era per nulla semplice reperire in Russia i dischi occidentali e quindi i gruppi sostanzialmnte facevano da juke box. 
Il rock in Russia arriva negli anni '50, all'epoca degli stilyagi (i "maniaci dello stile", i giovani alla moda rock occidentale), ma la sua circolazione é affidata al mercato (nero) dei dischi pirata dei musicisti occidentali, incisi sulle lastre delle radiografie. La carta plastificata delle rediografie era materiale diffuso ed economico, sul quale i contrabbandieri di musica incidevano (con risultati probabilmente agghiaccianti) copie dei vinili di grido. Questi macabri flexi-disc ante-litteram venivano chiamati "costole", proprio perché spesso erano lastre di radiografie di costole rubate dagli ospedali! Gli stampatori abusivi di musica, in quegli anni, rischiavano grosso: dai tre ai cinque anni di reclusione nei campi di lavoro! 
Il rock restò, almeno fino alla metà degli anni '80, un fenomeno necessariamente underground, e le band che riuscirono ad emergere dall'anonimato furono davvero poche (e costrette a prestare molta attenzione alle proprie scelte artistiche per non scontentare i funzionari del Ministero della Cultura). Questo fatto trova spiegazione soprattutto nel severo controllo che il regime esercitava nei confronti di tutte le espressioni artistiche. Tutto in Unione Sovietica era regolato da una burocrazia asfissiante: i musicisti, ad esempio, erano rigidamente distinti tra amatoriali e professionisti; ai primi era vietato guadagnare denaro con la propria attività, esisbirsi in sale concerti ufficiali, essere supportati dalle Agenzie Culturali, comparire in tv o passare alla radio. Al massimo potevano essere sostenuti da qualche fabbrica, scuola o circolo di lavoratori, e suonare per qualche iniziativa locale, naturalmente autorizzata dall'alto. Sostanzialmente, potevano fare la musica che pareva loro, ma non avevano la libertà di suonarla in pubblico. I professionisti, al contrario, avevano accesso agli ambienti artistici ufficiali e ai media, ma dovevano impegnarsi a garantire un certo numero di concerti al mese per poter guadagnare abbastanza per vivere (come un qualsiasi lavoratore). Tuttavia, per ottenere l'autorizzazione ad esibrisi, dovevano presentare il proprio "show" ad un Consiglio Artistico che avrebbe valutato il potenziale commerciale della proposta, gli ideali espressi e naturalmente la preparazione tecnico-strumentale dei componenti. Se un gruppo veniva respinto poteva ripresentare lo spattacolo con gli aggiustamenti del caso. Se però falliva un'altra volta, allora doveva cambiare Commissione, ovvero città.
Con queste premesse si capisce perché suonare musica interessante risultasse tremendamente difficile in USSR. Malgrado tutto, a suonare rock, qualcuno ci provò; senza grande creatività comunque, considerato che, come già detto, per molto tempo le band si accontentarono di passare per le copie sbiadite e odorose di borsch dei gruppi occidentali.
Il rock sovietico cominciò ad assumere una personalità più marcata a metà anni '70, con alcune band che scelsero di utilizzare regolarmente la lingua russa nei testi. Le band capostipiti del nuovo rock russo furono principlamente due: i Mashina Vremeni (Macchina del Tempo) e gli Akvarium. Non fu tanto la musica (non proprio originale, né trasgressiva) a determinare il successo di queste due band, bensì i testi, nei quali cominciavano ad emergere sentori di disagio uniti ad un certo pessimismo di fondo (nel quale molti giovani russi si identificavano), il tutto naturalmente sgradito ai burocrati. Per questo suo cattivo carattere, il nuovo rock russo entrò subito nel mirino delle autorità, le quali, per la prima metà degli anni '80, si ostinarono ad arginarne duramente la portata e a censurarne gli esiti più scomodi, spesso con risultati del tutto controproducenti. Negli anni della perestroika di Gorbaciov (dopo il 1985) si assistette ad una maggiore apertura delle istituzioni nei confronti dei fermenti (sotto)culturali. Fu un'epoca di grandi entusiasmi, una vera e propria primavera artistica, tanto gioiosa quanto effimera, considerati i profondi cambiamenti che avveranno nella società russa al tramonto del socialismo...

Alcuni esempi di "costole", i dischi di rock'n'roll pirata degli anni '50 incisi sulle radiografie...

Un misterioso gruppo rock dell'Armata Rossa si esibisce in caserma (anni '60?).


I Mashina Vremeni in concerto nel 1984 allo stadio di Vladivostok, nell'estremo est russo...

Gli Akvarium nei primi anni '80.


[Soviet new-wave - 1]
TELEVIZOR (Leningardo) -  Ше́ствие рыб (LP 1985-88)
Potremmo parlarvi degli Alisa, degli Zoopark o dei Kino, o di altri idoli delle adolescenti  sovietiche degli anni '80, ma preferiamo partire dai più tenebrosi Televizor di Mikhail Borzykin. Perché furono, tra le band new wave, la più indisciplinata. I Televizor si formarono a Leningrado (odierna San Pietroburgo) nei primi anni '80 quando Borzykin lasciò la scuola per dedicarsi anima e corpo alla musica. Borzykin era un tipo problematico e inquieto, e i Televizor lo rispecchaiarono fedelmente: non riuscirono mai ad accettare i compromessi che vennero loro imposti. Furono autori di pezzi stranamente (ed incoscientemente) espliciti nell'attaccare il potere: l'inno ingenuo ma sincero di "Sfuggi al controllo", "Siamo in marcia", "Il pesce puzza dalla testa" (proverbio russo che significa: la corruzione sta ai piani alti del potere), "Sono stufo" e soprattutto "Nostro papà è un fascista" (papà è Stalin, naturalmente).    
Per comprendere il ruolo che una band come i Televizor ebbe nella scena rock di Leningrado e di tutta la Russia, occorre spiegare che cosa significasse suonare rock in Unione Sovietica nei primi anni '80 allorché le rock band crebbero di numero destando le preoccupazioni del regime. Dalla critica tradizionalista, il rock era considerato musica amatoriale e borghese, per giunta figlia dall'occidente corrotto e capitalista. Per risolvere drasticamente (e stupidamente) il problema della proliferazione incontrollata dei gruppi rock, nel 1983, fu deciso che da allora in avanti il repertorio di ogni gruppo musicale avrebbe dovuto essere composto da canzoni scritte da membri dell'Unione dei Compositori. L'Unione Compositori era un'elite di musicisti professionisti di formazione accademica dediti alla musica popolare ufficiale. I compositori di alcune band decisero di tentare l'ammissione all'Unione, ad alcuni andò bene, ad altri male, ma in entrambi i casi tutte le band furono costrette a scendere a compromessi umilianti. Le esibizioni dei gruppi che non eseguivano brani "d'autore" vennero quindi vietate. Al rock underground restava un'unica strada: i rock club ufficiali. Si trattava di riserve indiane nelle quali le band potevano esibirsi, ma sempre sotto il controllo, più morbido (ed ugualmente sgradevole), di un gruppo direzionale e del locale Komsomol. Anche qui però l'ammissione delle band era subordinata ad una audizione di fronte ad una giuria selezionata. Da ciò si capisce che anche nei rock-club si respirava l'odore stantio della burocrazia e delle gerarchie amministrative. Anche tra gli stessi musicisti i rapporti non erano semplici: i più anziani godevano di maggior credibilità e fiducia da parte delle istituzioni, ed esercitavano un ruolo quasi paterno verso i più giovani, che dovevano seguirne i consigli e masticare amaro, anche perché spesso i musicisti più grandi, per paura di guastare i rapporti con gli amministratori (e il loro status di band arrivate), svolgevano un'attività di censura nei confronti dei gruppi più giovani.

La copertina dell'album dei Televizor: fa tenerezza nella sua ingenuità...
I Televizor, che erano tra i gruppi sfigati, ignorarono regolarmente ogni tipo di divieto e di intimidazione: a Borzykin fu chiesto in svariate occasioni di non cantare pezzi come "Sfuggi al controllo", ma lui se ne sbatté sempre. Una volta, durante "Il pesce puzza dalla testa" indossò una maschera di Gorbaciov (tanto perché nessuno potesse fraintendere il messaggio della canzone!). A causa di siffatta condotta, i Televizor vennero banditi a ripetizione da ogni concerto e per mesi non poterono suonare. Il risultato non fu però quello sperato dalle aurotrità, (ovvero di intimidire gli altri gruppi), fu piuttosto l'inverso: una nuova generazione di band di Leningrado prese coraggio e decise di fare di testa propria, gridando ai quattro venti "il governo fa schifo" e altre amenità indigeste. I Televizor, con il loro esempio, avevano aperto una breccia e tutti gli altri ci si erano infilati ben volentieri.
Il disco "Ше́ствие рыб" è il classico dei Televizor: fu registrato nel 1985, a ridosso del buon successo che la band aveva ottenuto agli esordi sul palco del rock-club di Leningrado, ma non fu pubblicato, a causa del trambusto che provocarono i successivi live. Solo tre anni dopo, nel 1988, il clima si fece favorevole all'uscita dell'album. Si tratta di un vero classico del post-punk russo, gelido e preso male, ma con un inconfondibile tocco soviet-disco... 

Mikhail Borzykin fa del suo meglio, malgrado il tendaggio della scenografia...

STRANNYE IGRY (Leningrado) - Смотри в оба (LP 1985)
Restiamo al rock-club di Leningrado per parlare dei Strannye Igry che animarono anche se per pochi anni, la scena rock underground della città. Devo innanzitutto ringraziare il mio amico Maksim di Mosca che mi ha inviato il vinile della band, della quale ancora ignoravo l'esistenza. I Strannye Igry (Giochi strani) si formarono nel 1981 e non furono una band di ribelli: dopo aver trascorso mesi a suonare in varie situazioni tipo matrimoni e ristoranti (le uniche ammesse per i gruppi amatoriali) per racimolare qualche rublo (illegalmente) ed acquistare la strumentazione, si chiusero sei mesi in sala prove per mettere a punto il loro esordio ufficiale al Club della Musica Moderna nel Palazzo della Cultura di Leningrado (chissà che atmosfera frizzante!); in quell'occasione suonarono con i già celebri Aquarium, una delle più apprezzate band del rock sovietico. Diedero loro la merda, si racconta.
Erano una specie di collettivo formato da sette musicisti e performer, gente colta, con una certa ambizione...  Ascoltandoli, però, danno l'idea di essere un gruppo di cabarrettisti ubriachi di vodka. Incarnarono una caratteristica della Tusovka, cioé quella fusione tra musica, teatro e cabaret che era tipica di molti gruppi e contribuiva a rendere più comunicativi i concerti e a differenziare le nuove band dalle vecchie orchestre da ristorante tipiche dell'Urss.
Ciò che rende interessante gli Strannye Igry non è tanto la loro storia, ma il loro stile: noti per essere stati il primo (ed unico?) gruppo ska/rockstaedy della russia comunista, nulla hanno in realtà a che fare con il classico sound 2-tone dello ska europeo. Li definirei piuttosto un ibrido miracoloso tra Madness, Kraftwerk e Magma. Il miracolo sta nel fatto che tutto gira a meraviglia! Artemy Troisky (divulgatore del rock russo in occidente negli anni '80) ci introduce così gli Strannye Igry: "Il gruppo conteneva un miscuglio di individualità molto diverse, ognuna singolarmente una figura forte. Sfortunatamente l'abbondanza di personalità non poteva aiutarli quando si trattava di scrivre buoni testi e così gli Strange Games utilizzavano i versi dei poeti occidentali modernisti (tradotti in russo naturalmente!). La voce era un altro problema - quasi tutti cantavano nel gruppo con un proprio stile e con uguale mediocrità. Per essere più chiari non c'era un leader nella band oppure ce n'erano troppi... il che li condannò ad una breve durata (lo scoglimento avvenne infatti nel 1985). Sul palco tuttavia erano magnifici - comici, caotici, impetuosi. Si sgomitavano a vicenda dal microfono, si scambiavano gli strumenti, provocavano il pubblico... ma la loro anarchia era finemente organizzata".  
"Sguardo affilato", uscì nel 1986, quando il gruppo era già al capolinea: dalla copertina ci scrutano gli occhi di una tigre siberiana; guardando meglio nelle pupille si nota il riflesso di un uomo armato di fucile. Se la copertina é folle, lo é altrettanto il contenuto. A chiudere l'album una cover assurda di Felicità (sì, Al Bano e Romina). Buon ascolto!

Gli Strannye Igry sul palco del rock-club di Leningrado non lesinano in effetti speciali...


ZVUKI MU (Mosca) - s/t (LP 1989)
Ci spostiamo nella capitale e parliamo degli Zvuki Mu, una delle più innovative rock band sovietiche degli anni '80. Tanto innovativi che il loro primo vero album ufficiale fu prodotto da Brian Eno e distribuito in Europa. In effetti il loro sound ricordava i Talking Heads, sebbene strafatti di vodka. 
Il leader e cantate Peter Mamonov, si presentava come un eroe tragicomico tutto sovietico: un poeta, ma nelle vesti del più comune ubriacone di strada. Non fu semplice per lui, musicalmente analfabeta e incline all'alcoolismo, trovare compagni per formare una band: il primo ad essere arruolato fu il fratello, Alexey, che però beveva più di lui. La vera  fortuna di Mamonov fu quella di incontrare il ricco trafficante d'arte Sasha Lipnitsky, che non solo imparò a suonare il basso ed entrò nella band, ma investì parecchi soldi per finanzairne l'attività. Grazie alle tasche bucate (ma ben fornite) di Lipinitsky e alle leggendarie esibizioni autolesioniste di Mamonov, in poco tempo gli Zvuki Mu conquistarono lo status di cult band dell'underground sovietico. I Mu erano il classico mix improbabile quanto riuscito: due alcolizzati (i fratelli Mamonov), un ricco nullafacente disadattato (Lipinitsky), un adolescente pieno di ottuso entusiasmo (il batterista Afrika) e un fedele hare-krishna, astemio e vegetariano (il tastierista Pavel); era abbastanza scontato che ne uscisse qualcosa di interessante!  Artemy Troisky in "Tusovka: who is who in the new soviet rock culture" (1990) ci racconta un aneddoto divertente sulla band, ritratta durante una delle sue prime trasferte al di fuori dei confini sovietici: "I viaggi all'estero sono un test per ogni cittadino sovietico e normalmente provocano strane metamorfosi nelle persone. I radicali diventano di colpo conformisti, gli intellettuali si lanciano nello shopping, i chiacchieroni si calmano, le creature mansuete si mettono a fare un mucchio di rumore. Aspettavo con ansia la reazione degli Zvuki Mu a questa esperienza. Li ho seguiti durante il loro primo tour all'estero, un festival rock in Ungheria. Posso dire che la loro integrità non venne toccata dalle nuove comodità. Camminavano per le strade pulite di Budapest come selvaggi, trasandati e sporchi, e la popolazione locale li scambiò per rifugiati rumeni. Non erano però preparati alla vendita libera degli alcolici. Sulle prime, quando videro un bar in cui si poteva acquistare vino senza fare la coda, fedeli alla tradizione russa, si riempirono di vino più che poterono e ne portarono ancora via di scorta. Quando capirono che non c'erano code da nessuna parte e che l'alcol non mancava si rilassarono completamente e cominciarono a bere come spugne (con l'eccezione di Levushka il batterista vegetariano e hare-krishna). Poco prima dell'inizio del loro concerto qualcuno portò in camerino una cassa di birra e la lasciò lì senza commenti. Per un po' i Mu le girarono intorno sospettosi, pensando che ci fosse stato un errore,  ma quando scoprirono che era per loro ed era gratis la birra sparì in cinque minuti esatti. Il chitarrsita Alexey si addormentò: Peter cercò di svegliarlo per andare in scena. Alexey non lo riconobbe subito e voleva picchiarlo; allora Peter lo trasportò di peso sul palco visto che non si parlava di farlo camminare... Alla fine gli Zvuki Mu diedero uno spettacolo brillante, probabilmente il miglior concerto di tutto il festival!". 
Qui sotto trovate il disco del 1989 prodotto da Eno: un post-punk incline alle atmosfere levigate del pop occidentale, decisamente più addomesticato rispetto ai live della band, ma ugualmente interessante...
 
Gli Zvuki Mu a colazione dopo una nottata difficile: Peter Mamonov (l'ultimo sulla destra), é quello messo peggio, ma Lipnitsky (il primo sulla sinistra) lo segue a ruota; tant'é che il tastierista Pavel (al centro), lo osserva preoccupato. Irreprensibile e fotogenico Alexey Mamonov (il secondo da sinistra) ma lo tradisce una certa fissità nello sguardo. Vivace invece il batterista Levushka (il secondo da destra): perché astemio!
AGATA KRISTI (Sverdlovsk) -  Второй фронт (LP 1988)
Anche la Siberia ebbe la sua new wave, con epicentro a Sverdlovsk. Da questa città (che oggi si chiama Ekaterinburg), la terza più popolosa dell'immensa nazione sovietica, provenivano le band di maggior successo della provincia siberiana: i Nautilus Pompilius e gli Agatha Kristi. I primi, capitanati dal tenebroso cantante Vyacheslav Butusov, sono stati un gruppo di grande fama, molto apprezzati dalla critica, ma risultano alle nostre orecchie abbastanza commerciali; più divertenti furono invece i secondi, che negli anni '80 suonavano una specie di hard-rock gotico disperatamente retrò (a tratti sembrano un giurassico gruppo di rock progressivo).
I futuri componenti degli Agata Kristi s'incontrano nel 1984 alla Facoltà di Radioingegneria del Politecnico degli Urali a Sverdlovsk e mettono in piedi una band dal nome ridicolo di "VIA UPI RTF" (ovvero: Orchestra Vocale-Strumentale della Facoltà di Radioingegneria dell'istituto Politecnico degli Urali"). A proposito della sigla VIA, é necessaria una digressione: in Unione Sovietica questo acronimo (le iniziali in russo di "Orchestra vocale-strumentale", appunto) indicava ufficialmente tutte le band di "musica leggera" (un po' come da noi la parola "pop"). La sigla si diffuse negli anni '60 per indicare i primi complesi beat e le orchestrine rock. Essendo i termini "beat" e "rock" di matrice occidentale quindi sgraditi alla burocrazia sovietica fu coniato il termine VIA, che presto divenne sinonimo di un soft-rock zuccheroso e vacuo, molto apprezzato dai critici di partito. Per i vent'anni successivi i gruppi VIA rappresentarono il nemico da abbattere per tutti i veri rocker dell'Urss!
Dopo ben tre nastri registrati con quell'imbarazzante acronimo, grazie a dio, la band cambia nome in Agata Kristi, come la scrittrice di gialli, che evidentemente sui giovani russi esercitava un fascino quasi trasgressivo, non come da noi in occidente, dove é sempre stata letteratura per ottuagenari. Inotre, A e K erano le iniziali del nome del leader della band, Alexander Kozlov, quindi tutto filava a meraviglia. 
Nel 1988 gli Agatha Kristi pubblicano il loro primo album, che si intitola "Secondo fronte" ed é una raccolta di canzoni horror-kitsch con testi del tutto disimpegnati; storielle decadenti dai titoli come "Gnomi cannibali", "Pantera", "Acqua stagnante" e "Lupi neri". Per gli adolescenti sovietici, abituati al grigiore del pop ufficiale, questi testi morbosi e un po' assurdi furono una vera manna dal cielo! Tant'é che presto gli Agatha Kristi divennero una band nota ed apprezzata, e lo restarono fino ai giorni nostri, o almeno fino al loro scioglimento, avvenuto nel 2010. 

Gli Agata Kristi imitano (malamente) i Cure in una foto dei primi anni '90. Sopra in versione Spandau Ballet tamarri ottengono i medesimi risultati.

Russian Rock Underground (Documentary - Italy/Canada 1988)
Tra il gennaio e il febbraio del 1988, un canadese (Peter Vronsky) e un italiano (Sergio Pastrello) girano un reportage sul rock russo negli anni della glasnost, dal titolo non troppo originale di "Russian Rock Underground". Un piccolo capolavoro che fotografa al suo zenith un'epoca fugace e vitale. Dentro ci trovate interviste a Boris Grebenshikov degli Akvarium, a Mikhail Borzykin dei Televizor e ai Nebo i Zemlya (un notevolissimo, ma misconosciuto gruppo punk che ci offre un memorabile live semi-clandestino in una scuola). Ah, c'é anche Marquisa, la new sensation dell'heavy metal moscovita, un clip degli Zvuki Mu con un allucinatissimo Peter Mamonov e uno degli Auktion, che  sembrano una caricatura dei Police. Imperdibile? Assolutamente sì!

 

11/05/12

[Free books for punx]
Alice Banfi “Tanto scappo lo stesso - romanzo di una matta” (2008) / Furio Di Paola “Una questione di civiltà (mentale)” (2000)
[Pep] Alice Banfi è una pittrice che ha vissuto l'esperienza della terapia psichiatrica, trasformandola in un fattore di acuta intelligenza critica della psichiatria attraverso la costruzione di un romanzo, che il Kalashnikov Collective presenta ai suoi lettori quale depositario di una verità alternativa della “malattia mentale” e della sua cura: fondata sulla polemica legittimazione della voce del paziente che il pregiudizio psichiatrico pretende al contrario di squalificare deprivandola di valore veritativo. Alice Banfi, concentrandosi in particolare sul suo ricovero in un servizio psichiatrico di diagnosi e cura di un ospedale milanese, perviene alla messa a fuoco dei procedimenti obiettivanti della psichiatria, la quale reificando il paziente nella sua malattia lo istituisce, in luogo di interpellarne la soggettività, quale bersaglio delle proprie procedure terapeutiche (di cui al giorno d'oggi risulta emblematico un approccio farmacocentrico autonomizzato da qualsivoglia quadro dialogico intersoggettivo). Alice Banfi riesce a rendere icasticamente tale deriva anti-dialogica (e dunque necessariamente anti-terapeutica) dell'odierna psichiatria laddove descrive la specifica modalità relazionale implicitamente o esplicitamente suggeritale dagli psichiatri ospedalieri preposti a curarla : quella dell'adesione passiva ad un (inefficace) processo terapeutico eminentemente psicofarmacologico che per realizzarsi compiutamente implica proprio tale disposizione soggettiva e relazionale. Ne risulta una prassi terapeutica inequivocabilmente predominata da un orientamento eliminazionista nei confronti della “malattia mentale” (l'entità nosografica che il sapere psichiatrico costruisce onde isolare e definire medicamente le modalità di pensiero e di azione socialmente in-accettabili), letta quale bersaglio da fare oggetto di un' opera di silenziamento e cancellazione primariamente psicofarmacologica. Altrettanto evidenziato è il dilagare, nello spazio ospedaliero preposto alla terapia, della violenza abusatoria nei confronti dei pazienti, che, garantita dallo stigma psichiatrico che li delegittima quali soggetti di testimonianza, trova la propria condizione di possibilità nell'assegnazione della soggettività folle all'ambito di una alterità radicale e non commensurabile, cui consegue dunque l'effettuazione di un trattamento psichiatrico le cui modalità operative ed etiche sono prive di confini definibili. Particolare attenzione è riservata dall'autrice alla procedura psichiatrica della contenzione meccanica, (da lei stessa drammaticamente subita), consistente nel legare o fissare al letto per ragioni di sicurezza il paziente, e presente anche negli ambiti geriatrico e pediatrico. Tale modalità di intervento, psicologicamente e fisicamente pericolosa ,nonché lesiva della dignità del cittadino, benchè si sia rivelata evitabile e suscettibile di alternativa da svariati decenni, continua a sussistere, salvo che in una minoranza di situazioni più consapevoli, nella maggior parte dei servizi di assistenza psichiatrica: d'altronde è piuttosto difficile immaginare che venga modificata una pratica che, benchè dichiaratamente medica , risponde in realtà alle esigenze di un sistema di pensiero sottesamente religioso. Scrive infatti Thomas Szasz: “La premessa su cui si fonda la teologia è l'esistenza di Dio. I teologi non possono né definire Dio , né provarne l'esistenza; per loro e i loro seguaci l'esistenza di Dio è ovvia, al di là di qualsiasi necessità di dimostrazione. Quelli che la negano sbagliano, sono fuorviati o peggio. L'onus probandi [onere della prova] ricade sul non-credente che deve provare la non-esistenza di Dio. Ora, la premessa alla base della psichiatria è l'esistenza della malattia mentale. Gli psichiatri non possono definire la malattia mentale né dimostrarne l'esistenza; per loro e per i loro seguaci l'esistenza della malattia mentale è ovvia, al di là di ogni necessità di dimostrazione. Quelli che la negano sbagliano, sono fuorviati o peggio. L'onus probandi ricade sul critico della psichiatria, che deve provare la non-esistenza della malattia mentale”. Va peraltro sottolineato come si tratti di un onus probandi non effettivamente esercitabile: mentre per il teologo la negazione di Dio nell'accezione gradita alla propria specifica confessione religiosa, produce l'inequivocabile e sulfurea identificazione del negatore con un più o meno diretto e consapevole strumento di Satana, di ascolto superfluo e fatalmente insidioso per il fedele cristiano, per l'assertore della psichiatria la negazione dell'esistenza della malattia mentale (o dell'attribuzione di essa alla propria persona) risulterà tendenzialmente l'allarmante e definitiva manifestazione di quest'ultima.
A coronamento teorico dello straordinario e coraggioso testo di Alice Banfi (che è corredato da un'introduzione dello psichiatra sociale Giuseppe Dell'Acqua) accludiamo “Una questione di civiltà (mentale)”, l'esemplare poscritto del volume del noto filosofo della scienza Furio Di Paola, “L'istituzione del male mentale. Critica dei fondamenti della psichiatria biologica” (2000), in cui, a completamento di una puntuale contestazione epistemologica del bioriduzionismo psichiatrico contemporaneo, lo studioso rileva e disamina con magistrale limpidezza, sulla base delle teorie anti-istituzionali di Franco Basaglia,l'odierno perdurare delle valenze istitutive della psichiatria. [Sopra: un disegno di Alice Banfi].

>>> Download Alice Banfi “Tanto scappo lo stesso - romanzo di una matta” + Furio di Paola in .pdf [ITA] (3,6 mb.)

03/05/12

[Free books for punx]
Pierangelo Di Vittorio “James G. Ballard. This is tomorrow: biofascismo e follia d'elezione”(2009).

[Pep] Partendo dal presupposto che le potenzialità concettuali degli scritti di James Graham Ballard restino tuttora inindagate, Pierangelo Di Vittorio, il cruciale pensatore anti-istituzionale che muove dalle prospettive di Franco Basaglia, costruisce, in questo straordinario saggio che il Kalashnikov Collective Headquarter presenta ai propri lettori, un profilo dell'opera del narratore britannico, atto a coglierne soprattutto l'utilità nella lettura del presente, nel quadro del progetto del collettivo multi-disciplinare Action30, orientato alla rilettura storiografica e concettuale degli anni trenta del ventesimo secolo utilizzati come lente per evidenziare le odierne forme di razzismo e fascismo (collocandosi, in ciò, in un rapporto di consonanza con il Ballard di Regno a venire). Lo sguardo di Di Vittorio muove da un'illuminante opera di scandaglio delle origini biografiche ed artistiche dell'immaginario di Ballard per approdare alla nozione, compiutamente espressa dallo scrittore britannico, di self-racism o razzismo per normali ( fondato sulla discriminazione tra normalità meno normali e più normali e orientato al sistematico conseguimento delle seconde, nell'ottica del guadagno individuale della condizione definibile come super-normale, incarnata ad esempio da un personaggio quale Silvio Berlusconi). Di Vittorio mette quindi in particolare evidenza la nozione di fascismo terapeutico: in assonanza con la riflessione di Franco Basaglia che, ponendosi come critico del concetto di comunità terapeutica dello psichiatra britannico Maxwell Jones ( riletto attraverso l'analisi del film hollywoodiano “Il ponte sul fiume Kwai” di David Lean), riesce a focalizzare le peculiari modalità relazionali che intercorrono in essa producendovi una specifica amplificazione dell'effettualità del potere. In tal senso la riflessione di Basaglia si rivela portatrice di un punto di vista critico che oggi appare suscettibile di un'applicazione generalizzata all'intero corpo sociale, nel quadro dell'insediamento lungo tutta la sua estensione dei meccanismi di ascendenza psichiatrica della comunità terapeutica. Va rilevato in ogni caso come l'odierno razzismo tenda a situarsi al di là del meccanismo novecentesco dell'individuazione e dell'eliminazione dell'anormale,la cui genesi Michel Foucault individua nella psichiatria e nelle sue pratiche, per situarsi sul citato versante della discriminazione autopraticata tra le normalità più normali e quelle meno normali, oggetto di selezione all'interno del proprio quotidiano individuale. La narrativa di Ballard giunge a delineare un rovesciamento della comunità terapeutica stessa (in cui ad essere attivato e gestito non sia il potenziale cooperativo degli individui ma quello violento): quest'ultima è orientata ad un recupero controllato della violenza criminale razzista e della devianza psichica (concettualizzabili come fascismo e follia d'elezione, oggetti cioè di una libera e regolata scelta) in un quadro in cui il legame interindividuale s'eclissa sempre più, asfissiato dalla pratica biopolitica dell'eliminazione dei conflitti (di cui è emblematico risultato la comunità ideale del Pangbourne Village, descritto da Ballard in Un gioco da bambini), e abbisogna della violenza quale fattore imprescindibile della sua resurrezione. In tal senso Ballard si staglia come uno dei massimi analisti di un fascismo senza fascismo, ovvero di un fascismo gestionale che costituisce il nuovo orizzonte panterapeutico della moderne società liberali, dominate dalla figura sacerdotale dello psico-manager, in cui si fondono il manager e lo psichiatra, dando luogo ad una spiritualità tecnico-strumentale, che rilegge l'anima come risorsa strategica dell'efficienza organizzativa. Sarà semmai in questo senso che nella nostra società si potrà manifestare un nuovo messia fascista, in un rapporto pienamente continuistico con il presente. “Uscirà da qualche centro commerciale: i messia vengono sempre dal deserto. E troverà tutti in attesa di cogliere l'occasione al volo.